E’ conoscenza comune che lanciare una moneta in alcuni pozzi garantisca l’avverarsi di un desiderio espresso; lo ha insegnato il folklore popolare, con fiabe, miti e leggende.
E’ poco risaputo, invece, che caderci dentro realizzi un incubo, con orrori e sofferenze ignoti alla maggior parte delle persone, ma ben familiari a coloro che hanno avuto la sventura di vivere questa terribile esperienza.
Lo sapeva bene Patrick O’ Doyle, che ci era finito dentro senza sapere come, quando e perché.
Si era svegliato in un buio accecante e sconosciuto. Le tenebre erano così fitte che non gli riusciva di vedere alcunché, nemmeno la sagoma oscura delle sue mani portate davanti agli occhi. Aveva l’impressione di giacere nell’oblio del nulla, perso in un luogo senza tempo e senza spazio. Se non fosse stato per il contatto fisico con la superficie dura, fredda e vischiosa avrebbe seriamente preso in considerazione la possibilità di aver infranto la dimensione della materia e raggiunto un altro livello di esistenza: orribile, spaventoso e desolato.
Purtroppo per lui, non era così: una serie di dolori che tormentavano il suo corpo malandato gli ricordavano con sgradevole insistenza che non stava sognando e che la realtà era molto peggio delle sue irrazionali considerazioni.
Languiva in una posizione innaturale, rannicchiato sul fondo melmoso di quello che ipotizzò essere un vecchio pozzo in disuso. La poltiglia liquamosa, in cui era parzialmente immerso, produceva un fetore nauseabondo così intenso che violentava il suo olfatto con brutale crudeltà, riempiendogli le narici con un insopportabile olezzo e inducendogli conati di vomito che dominava a stento.
Il dolore lo punzecchiava in diverse parti del corpo, esplodendo in lancinanti fitte a intervalli irregolari. Ogni minimo movimento innescava un effetto a catena, dove la sofferenza si rincorreva senza sosta per tutto il suo involucro di carne in una spirale di agonia. Ma il dolore era l’ultima delle sue preoccupazioni; era un giovane robusto abituato a sopportare le afflizioni fisiche: partecipava spesso a incontri clandestini di lotta per racimolare qualche soldo e ne usciva sempre malconcio. Ciò che lo angosciava era la totale assenza di ricordi e informazioni che potessero guidarlo negli eventi che stava vivendo. L’inquietudine diveniva più forte, mentre si sforzava inutilmente di fare mente locale, mutando in paura quando realizzò di non essere in grado di capire dove si trovasse e come fosse finito in quel luogo ignoto e terrificante.
Scombussolato e sofferente cercò di liberarsi da quella sensazione di smarrimento che lo pervadeva, ma la cecità indotta dal buio gli rendeva impossibile familiarizzare con il posto in cui si era risvegliato. Alzò la testa verso l’alto, ma non gli riuscì di scorgere l’uscita: l’oscurità lo soverchiava in ogni direzione, opprimendolo in un abisso di tenebre.
L’impossibilità di non riuscire a vedere l’apertura lo riempiva di orrore, che lo torchiava con quesiti senza soluzioni: quanto era profondo il pozzo? Perché i raggi del sole non giungevano fino a lui? Era forse notte? Ma se stavano così le cose, perché non scorgeva la luna e le stelle? Perché non udiva le creature notturne o qualsiasi altro rumore? Era stato sepolto vivo nelle viscere della terra, dimenticato e abbandonato da tutti?
Le risposte gli sfuggivano nei meandri di un uragano di pensieri funesti, che strappava emozioni, dolori e ragionamenti attirandoli a sé, come un vorace buco nero, risputandoli come irrazionali congetture senza fondamento.
Il silenzio era assordante e amplificava le voci imprigionate nella sua mente, che annunciavano il sopraggiungere della pazzia.
Cercò di rimettersi in piedi, dominando il panico crescente nella sua mente, ma lo spazio ristretto e le contusioni resero quel banale gesto una tortura interminabile. Strisciò contro le pareti umide e ammuffite, rotolando su sé stesso nella melma, come la grottesca parodia di un anfibio antropomorfo. Si mise seduto, poi spinse con le gambe strofinando il dorso della schiena sulle mattonelle fredde e viscide, infine si mise eretto, come i suoi antenati avevano imparato a fare migliaia di anni prima.
Le sue mani scivolarono sulle pareti coperte di muschio ed erose dall’acqua e dal tempo, alla ricerca di appigli che gli consentissero di risalire il pozzo ed evadere da quell’incubo ad occhi aperti, ma la prigione di pietra non aveva alcun desiderio di privarsi della sua compagnia e lo derise negandogli quella possibilità.
Chiamò ripetutamente aiuto, sputando tutto il fiato che aveva in corpo e sopportando il dolore suscitato da quello sforzo, ma la sua voce si rincorse in un’eco che si spense nel buio, senza riportare indietro alcuna replica.
Urlò disperatamente per una buona mezz’ora, cercando un soccorso provvidenziale da chiunque potesse udire il suo terrore. Prima si rivolse a suo padre e ai suoi fratelli, chiamando i loro nomi nell’oscurità, poi pregò e supplicò Dio, promettendo di ripagare il suo aiuto con buone azioni e la sua totale devozione. Fu tutto inutile: più passava il tempo, più si rendeva conto che nessuno lo avrebbe salvato.
Il panico si impadronì di lui, come una violenta e inarrestabile possessione demoniaca a cui era impossibile resistere, corrompendo la sua voce fino a sottometterla all’isterismo.
La furia giaceva con il terrore in un amplesso di mesta follia. I suoi strilli angosciati, componevano note stridule che facevano presagire un pianto disperato. Le suppliche e le preghiere furono sostituite da bestemmie indecenti, cupe maledizioni e rabbiose promesse di vendetta.
Alla fine Patrick si rese conto che le sue minacce erano deboli e vuote, ridicole alle orecchie degli ignoti responsabili del suo tormento. Ghermito dallo sconforto, si accucciò in quella melma putrescente. La gola ardeva per lo sforzo e per la sete, costringendolo a un rassegnato mutismo.
Abbandonato a sé stesso, senza possibilità di salvezza, intraprese un viaggio nelle profondità della sua mente, vagando tra un pensiero e l’altro in ragionamenti sempre meno razionali. L’agonia gli faceva da cicerone, guidandolo in quella mutevole valle di disperazione e desolazione. La follia bussava alla porta della sua ragione, spalancandola davanti a orrori che non aveva mai concepito. Nell’oscurità vide il suo passato, costellato di brutti ricordi dimenticati, e il suo futuro, la cui fine pareva imminente e colma di dispiaceri. Scorse i suoi fallimenti, che schiacciavano per numero i suoi esigui successi, e un mondo scevro di gioia, edificato su tristezza e insoddisfazione. Osservò un universo cupo, abitato da ombre meste che avevano dimenticato cosa fosse la felicità e tra esse, vide la sua, avanzare verso l’ignoto con passo lento e sconsolato, in quella che gli parve l’ultima marcia funebre, alla fine della quale si trovava un aberrante inferno sconosciuto, popolato di orribili creature che pregustavano la sua anima immortale come fosse un banchetto prelibato.
Poteva vederle in quelle tenebre, che lo scrutavano dalla loro dimensione ricambiando il suo sguardo. Rabbrividì, disgustato e impanicato: l’aldilà prometteva un’infelicità eterna.
I suoi singhiozzi e i suoi lamenti si innalzavano come una macabra preghiera inascoltata, che alimentava i demoni nella sua testa e nell’oltretomba.
Il suo monotono e sgradevole pianto fu interrotto da un improvviso e flebile stridore, proveniente da una delle pareti del pozzo.
Tese le sue orecchie nell’assoluto silenzio, con l’unico scopo di identificare il rumore. C’era qualcuno nei paraggi o se lo era immaginato? Era la disperazione che gli giocava uno scherzo di cattivo gusto o finalmente qualcuno si era degnato di soccorrerlo?
Vagava con la mente nell’oscurità, incespicando come un cieco abbandonato a sé stesso, alla ricerca di quella sorgente acustica. Era guidato da una nuova speranza, partorita dal terrore di morire in quel posto dimenticato persino da Dio.
Gridò con ritrovato entusiasmo, fiducioso di udire una voce familiare, invece, contro ogni sua più rosea previsione, gli rispose un timido squittio sommesso, che dissolse il miraggio di un soccorso provvidenziale come un sogno ad occhi aperti interrotto bruscamente.
Tornato all’orrore della realtà in cui si trovava, esorcizzò la sua frustrazione con un urlo disumano carico di odio e rabbia.
Ormai gli era chiaro che la salvezza non sarebbe giunta da fuori, doveva ottenerla con le proprie forze. La disperazione aveva risvegliato il suo spirito combattivo, che era rimasto soggiogato dallo shock iniziale. In un impeto di furia localizzò il roditore, lo afferrò con la mano destra e dopo avergli torto il collo lo divorò crudo, mettendo a tacere momentaneamente i morsi della fame e consolidando la sua sicurezza risorta.
Accucciato nella poltiglia fangosa che giaceva sul fondo del pozzo, si sistemò in modo da premere con i piedi e con la schiena le pareti opposte. Lo spazio era molto limitato, quindi si ritrovò con gli arti inferiori piegati e compressi. Inizialmente si aiutò con le braccia, poi strisciando sulla superficie ammuffita e irregolare cominciò la sua lenta e interminabile ascesa verso l’esterno.
Lo sforzo era notevole, ma la paura lo incitava a non arrendersi. Il dolore cercava di ostacolarlo, aggiungendo le abrasioni della risalita alle contusioni della caduta, ma la volontà era più forte della sofferenza e il suo spirito di sopravvivenza aveva preso il sopravvento sul panico.
Nell’oscurità poteva sentire su di sé gli sguardi contrariati dei demoni che lo attendevano nell’abisso e gli squittii famelici di un’orda di ratti che fuoriusciva dal tunnel che aveva scavato quello che era finito nel suo stomaco. Brulicavano nei mefitici meandri del pozzo, come diavoli inebriati dall’odore di carne e sangue. Grattavano la pietra con i loro artigli e risalivano l’oscurità seguendo le sue orme.
Sentì dei brividi percorrere il suo corpo esausto, ma scacciò dalla sua testa lo spettro del terrore. Non poteva permettersi di perdere nuovamente il senno: se voleva vivere, doveva proseguire. La minaccia fantasma aleggiava sotto di lui celata dall’oscurità, in un turbinio di roditori famelici quanto le creature dell’oltretomba. Resistere all’orribile sensazione di fallimento era quasi impossibile: l’ignoto, ammantato con un cupo straccio di tenebra, accentuava la paura, ingigantendo il pericolo incombente.
Si sentì scivolare, ghermito dagli artigli e dalle zanne, ma era solo un’impressione. La disperazione stringeva la morsa sulla sua esigua sanità mentale, come le spire di un pitone avvinghiato sulla sua sventurata preda.
Spinse con forza gli arti e il dorso contro le pareti, assicurando la sua posizione nel vuoto. Ansimava e gemeva, in bilico tra la salvezza e la morte.
Ma quanto era risalito? E quanto mancava ancora per raggiungere l’uscita? Dov’erano i ratti? Erano rimasti indietro e l’eco dei loro passi lo ingannava, o erano vicini e il suo triste fato veniva alla luce? Il buio non lasciava scampo, portando con sé timori in grado di spezzare la risolutezza di un uomo determinato. Dominò i tremori, ma una nuova paura prese corpo nella sua mente provata, minando la precaria lucidità rimasta: sentiva il fetido alito dei roditori addosso, annunciando il loro arrivo con uno zampettare furioso e frenetico. Le loro voci si accavallavano in una cacofonia di orribili versi sgraziati, che gli promettevano una morte lenta e terribile. Vide l’orda di topi ricoprirlo, arrampicandosi sul suo corpo come un inarrestabile sciame di zanne e artigli, lacerandolo e straziandolo. Li vedeva nutrirsi della sua carne, così come i demoni della sua anima e pianse, ma senza arrendersi all’ineluttabile fine che le Norne avevano tessuto per lui.
Continuò a strisciare con i piedi e con la schiena, come un bruco che risale il gambo di un fiore. L’incubo lo inseguiva, nutrendosi della sua paura. Lo tormentava come uno spettro sadico e insaziabile.
Dopo una scalata interminabile, Patrick colpì con la testa una superficie dura e ruvida. Provò a sollevarla con il capo, ma sembrava fissata o troppo pesante. Si aiutò con le braccia, ma dovette spingere così forte che temette di perdere la presa sulle pareti e precipitare nel vuoto mortale.
Lo sforzo proruppe dalla sua gola come un etereo fiume di lettere e vocali selvagge e slegate, generando una progenie di bestemmie che accompagnarono il decadimento del coperchio di legno marcio e putrescente.
Emerse nel mondo come partorito dalle viscere della terra. Sotto lo sguardo indifferente delle costellazioni e della luna, si accasciò supino, con le braccia distese e un sospiro distrutto.
Urlò alla notte e pianse, prendendo a pugni il manto erboso che non gli aveva fatto alcun male.
Assaporò l’aria fresca e pulita, cercando di identificare quel luogo aiutato dalla luce soffice degli astri che lo osservavano. La radura delimitata dal bosco e i ruderi fatiscenti presso i quali sorgeva il vecchio pozzo erano sconosciuti ai suoi occhi. Sbuffò rabbiosamente, chiedendosi chi lo avesse rinchiuso in quell’inferno. Non aveva nemici, che lui sapesse. Forse era stata la malavita locale che non aveva più bisogno di lui per gli incontri clandestini? O qualche scommettitore scontento dei suoi risultati? Non lo sapeva e non lo voleva sapere, maledì in silenzio i nomi sconosciuti di persone senza volto, senza risparmiare gli avi e gli eredi.
Si allontanò, deciso a lasciare il Paese, arrancando verso l’ignoto. Ovunque, purché fosse lontano da quel posto maledetto.