Quando Beatrice Schivoli, la gattara di Moccio, si svegliò quella domenica mattina, non trovò, come ogni giorno, i suoi mici piagnucolare fuori dalla porta di camera sua, reclamando lamentosamente la colazione.
Le parve molto strano, ma pensò che probabilmente quei pigroni stavano ancora sonnecchiando sul sofà del salotto; dopotutto, avevano fatto i matti per tutta la notte: li aveva sentiti soffiare, litigare, saltare sui mobili e correre ovunque.
Stroncò lo sbadiglio con la mano sinistra e si recò in bagno con gli occhi stretti a fessura: la luce del sole invernale splendeva dai lucernari, graffiando il suo sguardo addormentato.
Espletò i bisogni mattutini, si lavò la faccia con l’acqua fredda e uscì in corridoio, dove pensava di trovare i suoi gatti in trepida attesa, ma la sua aspettativa fu nuovamente delusa.
Eppure aveva fatto abbastanza rumore da svegliarli e avvertirli che era l’ora della pappa.
Un campanello d’allarme risuonò nella sua testa: c’era qualcosa di sbagliato in quella mattina. Cominciò a preoccuparsi, ma era ancora presto per farsi prendere dal panico. Prima avrebbe tentato l’ultima mossa disperata: con la bocca socchiusa sbattè ripetutamente la lingua dietro i denti superiori, emettendo il richiamo del pasto a cui aveva abituato i suoi mici. Per loro era sempre stato un suono irresistibile, al quale avevano sempre risposto con puntuale precisione, raggiungendola da ovunque loro fossero nelle vicinanze.
Lo schiocco risuonò per il pianerottolo, propagandosi al piano inferiore, dove i suoi gatti normalmente dormivano.
Attese qualche attimo, per cogliere il loro frenetico calpestio sulle scale di legno, ma i secondi fuggivano via e dei suoi cuccioli non c’era alcun segno di vita.
La sua preoccupazione aumentò ad ogni battito di cuore, che aveva accelerato la frequenza improvvisamente. Era successo qualcosa quella notte, ma cosa? Li aveva sentiti miagolare come pazzi, saltare e correre, ma non aveva avuto la forza di alzarsi a controllare.
Scese i gradini di legno lentamente. Ogni suo passo era accompagnato da uno scricchiolio sommesso, come se le scale sofferenti le suggerissero, nella sua inquieta discesa, di perdere peso.
Il salotto che si apriva al suo sguardo, quando girò l’angolo, era immerso in una soffice penombra, affettata da sottili raggi di luce che penetravano dalle imposte chiuse.
Guardò subito sul sofà e le poltrone che lo accompagnavano, in cerca dei dormiglioni, ma in cuor suo sapeva che non avrebbe trovato nessuno. Il suo timore non fu disatteso, i mici non sonnecchiavano come aveva sperato.
Il suo sguardo scrutò il locale oscuro, alla loro ricerca e li localizzò ad uno ad uno in posti anomali, per quel particolare momento della giornata: tre di loro erano appollaiati sopra la credenza, che occupava la parete di fronte alle scale; quattro erano sui pensili della cucina, che si affacciava sul salotto alla sua destra; uno era nascosto dietro i peluches, disposti sulla mensola alta alla sua sinistra, e l’ultimo era sul livello del televisore, incassato nella grande credenza. Sembravano tranquilli, ma trapelava una indefinita inquietudine dalla loro disposizione, la cui reale natura sfuggiva a Beatrice, provocandole un aumento delle pulsazioni sanguigne.
Tutti loro guardavano con ostinazione il sofà, limitandosi a muovere occasionalmente un orecchio verso di lei: conoscevano il suono dei suoi passi, non era necessario che la osservassero avvicinarsi.
La gattara percorse gli ultimi gradini e si avvicinò con cautela al divano: era chiaro che ci fosse qualcosa in quel mobile che turbava i suoi mici, ma ad un primo sguardo non aveva identificato nulla. Ipotizzò che un serpente fosse entrato in casa e che si fosse nascosto sotto il sofà, ma nutriva seri dubbi che fosse la reale causa di quella agitazione: ogni tanto capitava che i suoi gatti le portassero in dono, oltre ai corpi esanimi di passerotti, topi e lucertole, anche i cadaveri flaccidi di piccole bisce. Tuttavia, non riusciva a pensare a nulla di diverso, che potesse giustificare quella bizzarra, quanto inquietante, situazione.
Mentre si avvicinava al divano, cercò di tranquillizzare le povere bestiole, ma soprattutto sé stessa, con parole rassicuranti appena sussurrate.
Prese una torcia elettrica da un cassetto della credenza e analizzò il mobile: spostò i cuscini adagiati li sopra e si accucciò a terra per illuminare lo spazio tra il pavimento e il sofà, ma non trovò nulla, a parte la polvere e alcuni piccoli oggetti, lanciati lì sotto dai mici durante i loro giochi.
Sbuffò contrariata rialzandosi, recuperando un po’ di tranquillità.
«Cosa diavolo vi prende oggi? Siete impazziti?» Chiese Beatrice ai suoi gatti, con tono seccato, ma da parte loro non ci fu alcuna reazione: nessun lamento, nessun movimento. Continuavano semplicemente a fissare un punto specifico, come se ne fossero ipnotizzati.
«Non c’è nulla qui!» Esclamò frustrata, mostrando loro che nulla si nascondeva tra i cuscini, lanciandoli in giro per il salotto, o sotto il divano, ribaltandolo faticosamente sullo schienale.
«Visto? Non c’è niente!» Insistette, ma una consapevolezza inconscia le provocò un brivido lungo la schiena: stava guardando il posto sbagliato. Un fruscio raccapricciante risalì le scale dallo scantinato, rizzandole i peli biondi sulle braccia e mettendola in allarme.
I suoi gatti non fissavano il sofà, fissavano il pavimento, come se ci potessero vedere attraverso. Chiaramente non era così, ma si aspettavano che qualcosa giungesse da lì sotto, qualcosa che li aveva terrorizzati per tutta la notte costringendoli a trovare un riparo alto.
Raccolse tutto il coraggio che le era rimasto in corpo e si avventurò con la torcia verso il sotterraneo. Accese la luce della scala e discese verso l’incubo.
I suoi passi risuonavano di un sinistro fruscio, scandendo la sua tetra avanzata.
Raggiunto il fondo della gradinata, aprì la porta che separava il locale inferiore dal resto della casa.
Qualcosa si mosse tra le fitte ombre e quello stridore, che l’aveva condotta lì sotto, risuonò nuovamente nel piccolo locale, come una cupa e rabbiosa minaccia.
Accese l’interruttore con mano tremante, completamente impreparata alla visione di qualsiasi orrore si potesse nascondere nel suo scantinato.
La lampadina, che scendeva dal soffitto lungo un sottile filo nero, prese vita lampeggiando un paio di volte, prima di stabilizzarsi. La sua luce soffusa si faceva faticosamente strada nell’oscurità e offriva una scarsa visibilità della stanza. Ombre orribili abitavano gli angoli bui, nascoste dietro attrezzi e utensili impolverati, che giacevano inutilizzati in quella cripta domestica da tempo immemore.
Una vecchia scopa cadde senza preavviso e il tonfo scaturito la fece sobbalzare sull’uscio. Il suo sguardo corse rapidamente verso la direzione da cui si era generato il rumore e le parve di cogliere un movimento sgraziato e angosciante. Una forma indefinita aveva strisciato da un punto oscuro ad un altro. Non era sicura di ciò che aveva visto, ma era assolutamente certa che ci fosse una presenza ostile lì dentro.
Sentì le gambe tremare, ma non si mosse dalla sua posizione. Maledì con un sussurro impercettibile la lampada dello scantinato, per il suo scarso aiuto, e accese la torcia elettrica che si era portata appresso, puntando il fascio di luce verso il fondo della stanza. La pila allontanò le ombre dagli angoli su cui posò il suo lume, riducendone drasticamente le dimensioni, ma non ottenne alcun risultato soddisfacente: della creatura che infestava il suo sotterraneo non c’era traccia.
Udì i suoi gatti soffiare freneticamente dal salotto e si voltò verso la sommità della scala, incapace di capire se si stavano agitando per lei o per un pericolo più prossimo a loro, ma in quel momento colse con la coda dell’occhio un movimento furtivo, un’ombra assassina che si avventava su di lei, e d’istinto sbattè la porta alle sue spalle, isolando lo spettro nel piccolo locale. Sentì un tonfo sull’ingresso chiuso, come di un grosso corpo che sbatte contro l’uscio, poi una serie di colpi violenti e un ruggito sommesso, che le ricordò il frinire di centinaia di cicale.
Mantenne la maniglia serrata fino a che le sue nocche non assunsero un pallore scheletrico, tirandola a sé per impedire che qualunque cosa fosse rinchiusa dall’altra parte potesse girarla e aprire la porta, ma non sentì alcun tentativo di forzare l’apertura.
Quando i colpi cessarono, i gatti si ammutolirono.
Beatrice lasciò la maniglia e corse di sopra, facendo affidamento sul fatto che i suoi mici l’avrebbero avvisata nel caso la cosa lì sotto si fosse mossa nuovamente. Quando arrivò in salotto trovò i gatti nella stessa posizione in cui li aveva scorti nel momento in cui era scesa in salotto, ma questa volta avevano anche il pelo irto e la coda gonfia. Cominciarono a lamentarsi con miagolii angoscianti, ma non udendoli soffiare capì che il mostro era rimasto chiuso nel sotterraneo. Aprì un altro cassetto della credenza e recuperò un mazzo di chiavi. Le dita tremavano, scosse dal fremito di terrore che tormentava le sue mani, ma riuscì a identificare quella che le serviva e corse di sotto.
Infilò la chiave nella serratura e la girò fino a chiudere tutte le mandate possibili, poi si rannicchiò ai piedi dell’uscio e sussultò convulsamente abbandonata a singhiozzi strozzati.
Nella sua mente scossa si susseguivano domande assurde, a cui dava risposte ancora più incredibili. Arrivò a pensare che fosse impazzita, ma il ricordo costante del comportamento anomalo dei suoi gatti la smentiva con decisione, dandole una speranza orribile: se non aveva perso la ragione, c’era davvero un mostro nel suo scantinato.
Quando il respiro si fece meno ansioso e si fu tranquillizzata, razionalizzò l’accaduto: non sapeva cosa aveva visto, forse un animale selvatico o un ladro che era entrato in casa sua da chissà dove; tuttavia una voce dentro di lei continuava a suggerirle che si trattasse di qualcosa al di là della sua umana comprensione.
Tornò in salotto e accese la luce, poi cercò di accarezzare i suoi gatti, ma quelli non vollero saperne di farsi toccare. Sconsolata si recò alla finestra per farli uscire in cortile e notò che gli infissi erano completamente graffiati, come se i mici avessero disperatamente cercato di uscire. Appena aprì la finestra e le imposte, un vento gelido penetrò come il sospiro glaciale della morte. Rabbrividì e si strinse nella vestaglia, mentre i gatti zomparono giù dai loro rifugi e uscirono di corsa all’esterno.
Li osservò sparpagliarsi da tutte le parti, allontanandosi il più possibile da casa sua. Dentro di lei proruppe con violenza l’idea di seguire il loro esempio.
Chiuse la finestra e spense la luce, poi afferrò il telefono e recuperò dalla rubrica il numero di Fabrizio, il suo ex marito, anche se la ragione le suggeriva di non farlo.
Il cellulare le mormorò all’orecchio che la linea era libera, tuttavia dovette attendere diversi squilli prima che l’amore di una vita passata si degnasse di risponderle al telefono. In quegli attimi, scanditi dai monotoni e sprezzanti “tu-tu” di una chiamata che non veniva accettata, sentì la rabbia prendere il sopravvento sulla paura: maledizioni e imprecazioni sussurrate scivolarono tra i suoi denti, sputando veleno alle orecchie chiuse del suo interlocutore assente.
«Che bastardo! Non mi risponde!» Sbraitò incredula Beatrice, guardando lo schermo nero del cellulare. Riprovò a riavviare la chiamata, sibilando malauguri e anatemi verso l’uomo che le aveva rovinato la vita, ma dopo uno squillo la telefonata veniva stroncata sul nascere. Al terzo tentativo, comprese come stavano veramente le cose, Fabrizio aveva bloccato il suo numero, e si ripromise di vendicarsi, rinunciando per il momento a contattarlo.
Strinse il telefono tra le sue mani e lo scosse nell’aria, dando libero sfogo alla sua frustrazione, poi si ricompose e chiamò la polizia, per far controllare direttamente a loro chi o cosa ci fosse nella sua cantina: lei non avrebbe più rimesso piede là sotto.
Non poteva parlare dello spettro con loro, perché non le avrebbero mai creduto, quindi riferì alle autorità che aveva intrappolato nello scantinato un ladro che si era intrufolato in casa sua: era un azzardo, visti i suoi tristi trascorsi con le forze dell’ordine, ma non poteva ignorare il pericolo che si annidava nelle viscere della sua dimora.
Bernardo e Gerardo uscirono dalla stazione di polizia con passo svelto e furono accolti dalla gelida brezza invernale, che il pallido sole non riusciva a scaldare. Gli alberi spogli muovevano lentamente i loro rami scheletrici, come se salutassero il vento del nord e lo accogliessero a braccia aperte.
I due agenti salirono sulla loro volante, la misero in moto e partirono con le sirene spiegate.
Erano eccitati all’idea di arrestare un malvivente: non capitava molto spesso a Moccio; di fatto era un luogo molto noioso, dove non succedeva quasi mai nulla di interessante.
«Ehi Berny, la signora Schivoli non è la pazza che continuava a denunciare le cose più assurde?» Domandò Gerardo guardando fuori dal finestrino.
«Oddio!» Esclamò il guidatore, dopo un angosciante attimo di riflessione nel quale realizzò che si stava infilando in una brutta storia. «Non ci avevo pensato… Per me è sempre stata La Pazza di Moccio da allora… Diavolo, lo è per tutti alla centrale. Perchè diamine Giusy non l’ha chiamata così?» Domandò alzando la voce, con una leggera nota di disperazione.
Il collega si distese in una sonora risata, per la reazione esagerata di Bernardo.
«Avrebbe cambiato qualcosa? Saremmo comunque stati mandati noi…»
«Certo, certo, ma non mi sarei fatto illusioni… Pensavo che finalmente avremmo acciuffato un criminale, un vero criminale, non il solito ubriacone del sabato sera… Così è come andare in un rinomato ristorante per abbuffarsi e ritrovarsi invece nel piatto microscopiche porzioni. E’ soltanto una perdita di tempo!»
Gerardo continuò a ridere, osservando la pancia prominente del collega alla guida.
«Ancora con questa storia del ristorante? Non ti passerà mai?»
«No, così come non mi passerà mai la delusione per questa inutile uscita.»
«Non disperarti: magari La Pazza ha davvero intrappolato un ladro e, se così non è, avremo comunque una nuova divertente storia da raccontare sul suo conto.»
Bernardo sbuffò indispettito; le storie che riguardavano Beatrice Schivoli erano divertenti se raccontate da altri: viverle di persona era una dannata scocciatura.
Arrivarono all’abitazione della segnalazione in meno di dieci minuti, accostarono il veicolo e scesero lasciando i lampeggianti accesi.
Si avvicinarono lentamente alla casa, percorrendo il vialetto piastrellato e suonarono il campanello.
Beatrice aprì quasi subito, come se avesse atteso dietro la porta il loro arrivo. Aveva i capelli corvini arruffati e raccolti in qualche modo sulla sua nuca, con dei ciuffetti ribelli che ricadevano sul suo pallido viso allungato. Gli occhi scuri tradivano una paura controllata a fatica e il sorriso, appena accennato, era stato disegnato dal sollievo di averli lì.
Indossava una vestaglia celeste sopra la camicia da notte bianca, di cui si vedevano i lembi stropicciati ondeggiare all’altezza delle caviglie.
Gerardo pensò che sarebbe potuta essere una bella donna, se non avesse avuto problemi mentali.
Bernardo la squadrò con disprezzo malcelato, prima di rompere il ghiaccio.
«Signora Schivoli» si sforzò di salutare «ci porti dal presunto criminale che ha intrappolato in casa sua»
Alla donna non sfuggì l’utilizzo della parola “presunto” e l’inclinazione sarcastica del tono vocale utilizzato. Strinse gli occhi in due fessure di odio e rabbia, ma ingoiò il rospo, si voltò verso l’appartamento e li invitò ad entrare.
I due agenti entrarono in salotto e notarono i cuscini sparsi sul pavimento e il divano ribaltato, si scambiarono un’occhiata interrogativa, ma non fecero commenti.
«Da questa parte» disse la padrona di casa freddamente, indicando le scale che scendevano nell’antro dell’orrore. In cuor suo sperava che l’agente Bernardo cadesse nelle grinfie del mostro, ma poi rifletté sul fatto che, con tutta quella ciccia a disposizione, lo spettro avrebbe potuto vivere per anni e si rimangiò il malaugurio: meglio sopportare un idiota qualche minuto che un incubo tutta la vita.
«Vi servirà questa» disse Beatrice porgendo a Gerardo, il più vicino dei due, la chiave della porta del seminterrato. Bernardo le fece cenno di rimanere di sopra, prima di scendere i gradini, ma fu un gesto del tutto inutile per lei: aveva già deciso che non si sarebbe mai più avventurata lì sotto, fino a quando il male non fosse stato debellato.
Gli agenti scesero i gradini con passo cauto, rimossero il laccio che bloccava la pistola nelle loro fondine ed estrassero l’arma.
Raggiunto il fondo delle scale, Gerardo appoggiò l’orecchio alla porta, per sentire eventuali rumori provenienti dall’altra parte, ma a parte il silenzio, non udì altro. Guardò il collega schiacciato contro la parete, con la pistola ben serrata tra le dita delle mani, che gli rispose con un cenno d’assenso.
Gerardo infilò la chiave nella serratura, mentre Bernardo, con voce alta e cavernosa, intimava la resa al criminale rinchiuso nello scantinato. Non gli rispose nessuno e lui decise di fare irruzione. Annuì al compagno, che al segnale girò la chiave e aprì la porta.
Un cigolio sinistro accompagnò il loro ingresso nel piccolo locale, dove un freddo spettrale li accolse in un glaciale abbraccio.
La luce pallida della lampadina rimasta accesa dava loro la possibilità di scrutare l’ambiente, ma l’oscurità, che giaceva immobile lungo le pareti, innalzava una cortina di penombra, la quale celava i dettagli del perimetro.
Si guardarono intorno, ma non videro nessuno: nella stanza giacevano mobili, attrezzi e scatole dimenticate da tempo, reclamate dalla polvere e dal passato.
«Che cazzo! Lo sapevo, io!» Esordì Bernardo furiosamente «Non c’è un cazzo qui!»
«Calma Berny, dovevamo controllare. E’ il nostro lavoro.»
«Già, che gran lavoro di merda ci è toccato…»
Gerardo controllò per scrupolo tra le cianfrusaglie accatastate sul fondo dello scantinato, superando con un passo lungo l’asta della scopa riversa a terra.
«Niente, spiacente!» Esordì dopo un’accurata occhiata.
«Al diavolo! Leviamoci dalle palle, non ho intenzione di rimanere un minuto di più con questa matta!»
Gerardo strinse i denti e soffiò un sibilo, chiedendo silenziosamente al collega di abbassare la voce: temeva che la padrona di casa potesse sentirlo.
L’altro sbuffò, scrollando le spalle. «Non me ne frega un cazzo.» Mormorò rinfoderando la pistola e risalendo le scale.
«E’ là sotto, vi dico!» Esclamò Beatrice sull’orlo di una crisi di nervi, osservando gli agenti che tornavano da lei.
«Non c’è niente là sotto, a parte la spazzatura!» Sbraitò Bernardo con rabbia.
«E’ lì! L’ho visto! Per Dio, chiudete quella porta!» Urlò istericamente lei, rassegnata al fatto che gli agenti non l’avrebbero aiutata.
«Ora basta, signora Schivoli!» Replicò Bernardo, alzando la voce «La smetta di farci perdere tempo! Alla prossima infondata segnalazione, la faccio rinchiudere! Mi sono spiegato?»
La donna lo guardò con odio, poi corse giù per le scale e richiuse subito la porta a chiave. Gerardo la guardò compatendola, mentre il suo collega sbuffava scuotendo la testa.
«Andiamo, Gerry. Qui abbiamo finito.»
I due poliziotti uscirono dalla casa, risalirono sul veicolo e se ne andarono senza proferire parola.
Li osservò andare via a mani vuote, ma lei sapeva che tra le ombre del sotterraneo si celava qualcosa di mostruoso e si ripromise di non aprire mai più quella porta maledetta: per nessun motivo.
Sperava che la creatura non fosse uscita durante l’inutile ispezione dei due agenti. Se ci fossero stati i suoi gatti in casa, lo avrebbe capito leggendo i segni della loro paura, ma se n’erano andati e non sarebbero più tornati. Lo aveva saputo fin da quando aveva aperto loro la finestra del salotto e quella sera ne ebbe la conferma: nessuno di loro aveva fatto ritorno.
Una orribile verità le riempì il cuore di paura: era rimasta sola con il mostro che infestava il suo scantinato.
Si abbandonò mestamente sul divano, sprofondando nei suoi morbidi cuscini, dove pianse silenziosamente la sua sventura. Si chiese perché le stava capitando quello schifo, non riteneva di aver fatto nulla di male per meritare quello che stava vivendo, ma non trovò mai la risposta a questa domanda.
Quando i grotteschi versi del mostro risalirono le scale, seguiti da violenti colpi alla porta, Beatrice sobbalzò sul divano. Ogni pensiero svanì dalla sua mente, sostituito da un’unica certezza: abbandonare quella casa maledetta.
Corse in camera, prese una valigia e la riempì con tutto quello che le veniva in mente. Chiuse tutte le imposte e tutte le finestre, spense la luce e sigillò la porta d’ingresso girando la chiave fino a quando non fu più possibile procedere oltre, poi la spezzò all’interno della toppa, come a sigillare per sempre quell’uscio maledetto.
Caricò il bagaglio in macchina e partì senza mai voltarsi indietro, diretta ovunque non fosse casa sua.