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Il carretto di mele

Il vagabondo senza meta percorreva la strada deserta con passo pigro, guidato da un destino capriccioso all’interno di un bosco senza nome.
Tra gli alberi secolari, che svettavano verso il cielo terso, non si alzava un alito di vento, ma l’ombra generata dalle loro fronde rigogliose offriva un piacevole riparo dal sole tiranno, che ardeva furiosamente come se volesse bruciare il mondo intero.
Passerotti e fringuelli volteggiavano tra i rami coperti di foglie, cinguettando note allegre che ispiravano nell’animo del viaggiatore canzoni sconosciute. Il menestrello si unì inconsapevolmente al loro coro, fischiettando un motivetto che gli frullava per la testa e, una volta preso il ritmo, afferrò meccanicamente il liuto che portava a tracolla sulla schiena, preparandosi a suonare la sua melodia.
Aveva appena intrappolato la prima nota tra le sue dita, quando un elemento insolito catturò la sua attenzione: dove la strada curvava verso destra, un carro abbandonato giaceva di sbieco sulla via, colmo di mele rosse come il sangue.
Guardò a destra e a sinistra, ma non trovò nei paraggi il proprietario. Pensò che fosse successo qualcosa, nessuno lascia incustodito un carico come quello, ma ispezionando il veicolo non evidenziò alcuna traccia di incidente.
Afferrò con la mano sinistra il frutto più appariscente che il suo sguardo avido riuscì a carpire e lo studiò minuziosamente rigirandoselo tra le dita. Il suo colore vermiglio riluceva ai flebili raggi del sole, che filtravano tra le foglie degli alberi maculandolo con ombre sottili. Aveva un aspetto perfetto, luminoso e abbondante, che lo invitava ad assaporarne il sapore, promettendo di essere delizioso.
Passò la mela sotto il naso adunco, strofinandola sui baffi corvini, poi, dopo aver lanciato un’ultima occhiata furtiva alle sue spalle, la azzannò, affondando i suoi denti nella polpa umida. Un rivolo di succo scivolò sul suo mento irsuto, inzuppando la sua barba incolta.
Era squisita, esattamente come si aspettava, dolce e rinfrescante come il nettare degli dei. Si concesse un altro paio di bocconi, mentre la sua immaginazione vagava nei recessi più profondi della sua mente alla ricerca di aneddoti e nozioni apprese in gioventù: leggende antiche narravano di un frutteto divino, dove gli dei coltivavano le mele della conoscenza e della vita eterna. Se non avesse saputo che quei frutti venivano descritti dai miti come cibi dorati, avrebbe pensato che quella fosse una delle mele leggendarie.
Un lamento sommesso giunse dalle vicinanze, strappandolo dalle sue fantasie. Seguirono dei latrati feroci.
Il menestrello, colto di sorpresa, fece cadere la mela a terra e si accucciò dietro al carro, poi fece capolino dal suo nascondiglio, per osservare l’origine di quei versi minacciosi. Più avanti, lungo la strada, tre cani selvatici si litigavano il pasto, tenendosi lontano a vicenda. Dapprima non riuscì a capire a che animale appartenesse quella carogna, ma aguzzando la vista identificò quello che doveva essere il proprietario del carretto: un uomo corpulento riverso a terra, rannicchiato per difendersi dalle bestie fameliche. Avrebbe potuto uscire allo scoperto, creare un diversivo o spaventare i predatori, ma la paura gli ordinò di starsene buono e tranquillo, fino a quando il peggio non fosse passato. Si acquattò nel sottobosco, strisciando come una serpe, nel tentativo di allontanarsi dalla strada prima che il piccolo branco notasse anche lui.
Risalì lentamente il lieve pendio, mentre i gemiti e le richieste di aiuto dello sconosciuto lo inseguivano come spettri del rimorso, ma lui soppresse i sensi di colpa rifugiandosi dietro il pensiero che ormai quell’uomo era spacciato e lui non poteva fare nulla per aiutarlo. Si voltò per osservarlo un’ultima volta e si maledì per essersi concesso quella terrificante occhiata: i tre mastini balzarono sul malcapitato smembrandolo senza pietà, tra le sue agghiaccianti urla. Il panico lo pietrificò sul posto, come se fosse stato inchiodato al suolo, chiuse gli occhi e pregò Dio di avere salva la vita.
Rimase immobile per un periodo di tempo che gli parve infinito, mentre le bestie si nutrivano del cadavere. Avrebbe potuto fuggire, approfittando della loro distrazione, ma il suo corpo non rispondeva alle sue intenzioni. Attese, fermo e in silenzio, in preda a un terrore puro, assoluto. Non si mosse nemmeno quando sentì dei destrieri al galoppo avvicinarsi a lui.
I cavalieri superarono il carretto di mele ridendo e schiamazzando, poi tirarono dritti verso i cani, come se avessero fiutato una preda. Erano giovani scapestrati che amavano fare baldoria. Probabilmente si trattava di rampolli della nobiltà locale nel bel mezzo di una battuta di caccia. Trattenne un sospiro di sollievo: l’istinto gli suggeriva di rimanere nascosto dietro gli arbusti.
I cani fuggirono, ma i giovani li raggiunsero e li abbatterono con le loro lance, poi tornarono indietro per controllare il cadavere. Mantennero la loro allegria sprezzante, quando appurarono che il contadino era morto e, senza il minimo rispetto per quella vita perduta, denigrarono il defunto, umiliandone la carcassa urinandoci sopra, sempre tra risate sguaiate e versi osceni.
Concluso il ripugnante teatrino, si avvicinarono al carretto, presero delle mele e se ne andarono, così com’erano giunti: al galoppo sui loro destrieri, ridendo e schiamazzando.
Il menestrello attese che si furono allontanati a sufficienza, prima di uscire dal suo nascondiglio. Sbatté le mani sui suoi abiti per scrollarsi di dosso le foglie e la polvere, che gli erano rimasti aggrappati come zecche, e riprese il cammino.
Ridiscese il pendio, raggiunse il carico di mele abbandonato e infilò nella sua borsa da viaggio un paio di quei frutti, mentre ne tenne un terzo tra le dita per consumarlo di lì a poco.
Percorse la strada in silenzio, ignorando il canto degli uccelli che lo aveva incantato prima dello spiacevole incontro, e raggiunse il cadavere del contadino. Lo spettacolo era raccapricciante e non gli riuscì di non sentirsi in colpa.
Si tolse il cappello a tesa larga con la mano destra e lo portò al petto, mentre faceva un inchino d’ossequio al morto. La piuma di fagiano, che decorava il copricapo, penzolava spezzata e sgualcita verso terra, come un arto privo di vita.
Ringraziò il defunto per le mele, scusandosi per non essere intervenuto in suo soccorso. Pronunciò le parole evitando di guardare il corpo martoriato, per non rischiare di vomitare i bocconi che si era concesso prima di ignorare le sue richieste di aiuto, poi si voltò, calcò il cappello sulla testa e riprese il viaggio, affondando i denti nella sua saporita mela rossa.