Il sole rovente bruciava la steppa, dalla quale risalivano miasmi mefitici che sorgevano dal suolo arido come eterei morti viventi.
Il pistolero, ripiegato sulla dura e scomoda sella di cuoio, si faceva guidare dal suo morello, che attraversava quella landa desolata con passo lento e svogliato, sollevando sbuffi di polvere ogni volta che i suoi zoccoli ricadevano sul terreno asciutto.
Il viaggiatore estrasse dalla tasca dei pantaloni un fazzoletto, ormai consunto e ingrigito dall’usura, e lo strofinò sul suo volto stanco e sudato, poi, con la stessa lurida pezza si asciugò il collo umido e sporco.
La polvere si incollava fastidiosamente al suo corpo, ricoprendolo come uno sciame di locuste su un lauto banchetto, acuendo l’arsura e lo sfinimento che sentiva fin dentro le sue viscere.
Afferrò con un gesto meccanico la borraccia nella sua bisaccia e trangugiò l’ultima sorsata d’acqua: sottili rivoli fluidi scivolarono dalle sue labbra, bagnando il mento ispido e la gola riarsa. Dove il liquido ristoratore scorreva, portava via lo sporco che non era stato rimosso dalla pezza ruvida, lasciando sulla sua pelle ambrata solchi che ricordavano letti di fiumi prosciugati.
Ripose il contenitore nella sacca da viaggio e si asciugò le labbra con la manica della camicia, scagliando silenti maledizioni alla stella maligna che lo perseguitava senza pietà.
Si tolse il cappello dalla testa con la mano mancina e lo usò come ventaglio, mentre con quella destra, portata sopra le sopracciglia, coprì gli occhi dall’astro crudele e scrutò i dintorni. Non vide niente e nessuno, solo arbusti e desolazione.
Sbuffò contrariato rimettendosi il cappello: sapeva che da quelle parti sorgeva un villaggio sperduto chiamato Lonsee, ma non aveva trovato segni di presenza umana nei paraggi e in lontananza non compariva nemmeno l’ombra di un edificio.
Cominciava a nutrire seri dubbi riguardo alla sua esistenza: da quello che aveva sentito, nessuno era stato a Lonsee da molto tempo, poteva trattarsi di un mito o di un paese in rovina, per quanto ne sapeva lui, ma in entrambi casi riteneva di non avere altra scelta se non quella di continuare per la sua strada. Il timore di dover ricorrere a ripugnanti pratiche di sopravvivenza, per fronteggiare la sete e la fame, si fece largo tra i suoi pensieri nefasti, suggerendo di rinunciare alla fuga, ma tornare indietro significava arrendersi alla legge e condannarsi alla forca. La sola idea lo terrorizzava.
Procedette per il suo cammino, ben conscio che dinanzi a lui lo attendeva la libertà, in una forma o l’altra.
Le ore si susseguirono calde, violente e feroci, senza un alito di vento o l’ombra di una nube che potessero concedergli un po’ di sollievo.
Quando all’orizzonte comparvero le piccole e scure sagome dell’agognato centro abitato, si concesse un sorriso speranzoso, ma frenò l’entusiasmo che cresceva nel suo cuore, temendo che si trattasse di un infame miraggio: era risaputo che i demoni fossero sempre in agguato, attirando incauti viaggiatori nelle loro fauci con illusioni e false speranze.
In quel momento, qualcosa mutò nella desolazione circostante e l’aria, fino a quell’istante immobile, cominciò ad agitarsi. Dove la flebile brezza spazzava la prateria, si creavano piccoli mulinelli di polvere, che si aggrovigliavano nell’etere ascendendo verso il cielo vermiglio del tardo pomeriggio.
Al pistolero parve che alcuni di essi assumessero le sembianze di persone conosciute, fantasmi di terra che svanivano un istante dopo la loro spettrale apparizione.
Incolpò il sole crudele per quelle orribili visioni e si godette le folate di vento che giungevano dalle sue spalle, sempre più frequenti e con maggiore intensità.
Più la brezza si rafforzava, più Il numero degli spettri evocati nella prateria cresceva di numero, formando un’armata di lugubri figure che suscitarono nel suo cuore una profonda inquietudine.
L’aria cominciò a fischiare intorno a lui, ululando al cupo cielo sanguigno e sussurrando alle sue orecchie minacce incomprensibili, chiare solo al suo destriero, che cominciò a sbuffare nervosamente e a pestare gli zoccoli aggressivamente.
Il pistolero capì che la Morte aveva fiutato le sue tracce e senza indugiare oltre, spronò il suo morello a galoppare più veloce del vento stesso, alla disperata ricerca di un riparo dalla tempesta.
Il cavallo non si fece ripetere l’ordine una seconda volta: si impennò con un terrificante nitrito e fuggì senza remore dalla morte incombente, ritrovando una nuova energia dal terrore che albergava nel suo cuore.
Il vento divenne rapidamente più forte, ingrossandosi man mano che la polvere si sollevava dal suolo, e le sagome macabre che prima si materializzavano intorno a lui divennero pulviscoli indefiniti che sferzavano il suo viso e il suo destriero.
L’oscurità calò di colpo, evocata da una mutevole coltre di sabbia che imbrunì il cielo cremisi.
Il pistolero si coprì il naso e la bocca con il fazzoletto che portava legato al collo e strinse gli occhi per proteggerli dalla furia della tempesta. Quando il vento gli strappò il cappello dalla testa, lui non reagì, completamente concentrato sul suo obiettivo: la salvezza.
Il demone di aria e terra lo braccava tenacemente in una folle corsa, inghiottendo la desolazione nella sua terrificante avanzata.
Al fuggitivo parve che mutasse aspetto in continuazione, partorendo, nel turbinio di polvere, fantasmi di ogni genere e forma: cavalieri senza volto su grotteschi destrieri al galoppo, orribili streghe svolazzanti che danzavano con spiriti informi e volti raccapriccianti che esprimevano rabbia, dolore e disprezzo.
Sentì gli ululati e le urla degli spettri alle sue spalle: lo bramavano, pregustando il tetro banchetto che avrebbe offerto loro il suo corpo, ma lui non aveva alcuna intenzione di farsi raggiungere da quell’incubo errante e spronò senza sosta la sua bestia. Urlava in continuazione per esortare il cavallo a correre più velocemente, colpendolo con le briglie, prima a destra e poi a manca, sul collo madido di sudore. Ogni tanto picchiava duro anche sui fianchi con gli speroni degli stivali e il morello, stremato, rispondeva con forti e sgradevoli nitriti prima di tornare ad ansimare e sbuffare: la sua bocca schiumava e i suoi occhi emanavano lampi carichi di odio e frustrazione.
La criniera e la coda danzavano al vento, allungandosi selvaggiamente nell’aria, e il manto scuro come la notte, reso lucido dal sudore, emanava tiepidi riflessi cinerei quando l’offuscata luce del sole penetrava nella coltre di polvere e terra.
«Forza! Forza!» Gridò il pistolero senza mai guardarsi indietro «Ci siamo quasi!»
Il suono della sua voce gli fu strappato dalle labbra, portato via dalla tempesta che allungava i suoi artigli spettrali su di lui.
Gli sembrava di sentire migliaia di voci urlare alle sue spalle e le sue orecchie si riempirono di polvere e dolore.
Quando raggiunse Lonsee gli bastò una rapida occhiata per capire che si trattava di una cittadina abbandonata, ma vi spinse dentro il suo destriero senza esitazione, alla ricerca di un rifugio sicuro, anche se le abitazioni intorno a lui avevano un aspetto fragile e precario.
Le lasciò dietro di sé e la tempesta le divorò avidamente. Scricchiolii raccapriccianti si unirono al tetro coro infernale.
Man mano che attraversavano la cittadina, la speranza di salvezza si affievoliva.
Il pistolero faceva scorrere freneticamente lo sguardo, reso cieco dalla polvere, sugli edifici che delimitavano la strada, supplicando Dio in cuor suo di trovare un maledetto riparo. Quando ebbe l’impressione di averlo localizzato fermò di colpo il cavallo, tirando a sé le redini, ma il destriero contrariato si impennò sulle zampe posteriori scaraventandolo a terra.
Cadde pesantemente in una nuvola di polvere, si rialzò a fatica e corse verso il decrepito saloon che si ergeva lì vicino, mentre il destriero impazzito partiva imbizzarrito per la sua strada, portando con sé la sua bisaccia e i suoi averi.
Non c’era tempo in quel momento di pensare a quel problema o a qualunque altra questione: l’unica cosa che contava era salvare la pellaccia.
La tempesta si avventò su di lui come un rapace in picchiata, tra folli ululati e violenti sussulti, ma
il pistolero si lanciò con forza oltre le porte basculanti della locanda e rotolò sul pavimento sporco, tra tavoli impolverati e sedie abbandonate. Rantolò, liberando un paio di colpi di tosse, poi alzò lo sguardo e scrutò dolorosamente, con gli occhi stretti e torturati dalla polvere, il locale sconosciuto in cui si era disperatamente avventurato, ma nel buio non carpì altro che ombre.
La penombra era fitta, appesantita dalla tempesta di sabbia che infuriava all’esterno, ma una tenue luce spettrale, dalle cupe sfumature sanguigne e bluastre, filtrava in qualche modo tra le assi marce dell’edificio e dalle finestre rotte, le cui imposte ancora attaccati alla struttura sbattevano come impazzite in balia del vento, generando indefinite sagome grottesche che correvano fugacemente sul pavimento e sulle pareti.
Il pistolero si rialzò picchiandosi le mani addosso, cercando di darsi una ripulita, mentre la tempesta impetuosa scuoteva con forza il vecchio edificio di legno, facendolo gridare dal dolore. Le imposte continuavano a picchiare con forza all’esterno, i cui tonfi e stridori scaturivano minacciosi e inquietanti, mentre le porte basculanti del saloon continuavano ad aprirsi e chiudersi, come se fossero perennemente attraversati da spettrali avventori in cerca di riparo.
Il lampadario spento oscillava pericolosamente sul soffitto, scandendo il tempo come un pendolo buio, i cui cigolii dettavano il conto alla rovescia per la sua inevitabile rovina.
Il pistolero strofinò gli occhi e buttò uno sguardo alle finestre rotte, poi all’ingresso: la tempesta infuriava all’esterno, ma nonostante il decadente edificio offrisse più di un pertugio per entrare, aria e sabbia non si azzardavano a varcare la soglia, come se dei sigilli arcani glielo impedissero.
Quando si voltò verso il bancone, sperando di trovare nella credenza posta lì dietro qualcosa da bere, rimase impietrito, più per la sorpresa che per la paura: nella penombra, la sagoma di un uomo di cui non si era accorto si ergeva davanti a lui, fissandolo nell’oscurità. Doveva trattarsi dell’oste.