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Il nemico alle porte

I bastioni erano gremiti di arcieri. Le frecce incoccate attendevano, come falchi ammaestrati, l’ordine di piombare sulla preda e straziare le sue carni.

Gli esploratori erano stazionati ai piedi delle mura, con il compito di coprire la fuga dei civili, che avevano abbandonato le loro case per trovare rifugio all’interno della fortezza.
Le urla degli assalitori violentavano quelle delle vittime, in un’orgia di violenza verbale e carnale. Le voci del massacro si elevavano come un canto macabro dai vicoli e dalle strade cittadine, raggiungendo il cielo terso della mattinata di sangue.

Il sole splendeva opaco, nascondendo il suo sguardo dietro piccoli nembi pallidi, mentre il mare rumoreggiava infrangendosi sugli scogli del molo.

I figli di Orcus brulicavano sul limitare della piazza, preparandosi al brutale assalto. Qualcuno di loro era più bramoso di altri di portare morte e distruzione: spinti dalla furia e dal desiderio si lanciavano oltre la linea di demarcazione, cercando prede da fare a pezzi o da rapire. Chi osava, veniva bersagliato dai dardi degli esploratori che protetti da blocchi di pietra, scagliavano le loro maledizioni di legno e ferro sugli stolti e impavidi barbari.

Era un mattatoio, da una parte e dall’altra. Il fetore di morte e i miasmi degli incendi aleggiavano come spettri latori di sventure. Le colonne di fumo si innalzavano come i neri pinnacoli del tempio di Diastra, dea del dolore e della distruzione, riempiendo l’aria di mefitica essenza.

In quella rovina, un esploratore avvistò una coppia di donne che era rimasta indietro: correvano disperatamente per raggiungere la salvezza, ma erano lente. Troppo lente. Una delle due era impacciata dal fagotto che teneva in braccio: un bambino berciante avvolto in stracci e coperte.
L’arciere poteva udire la loro angoscia sopra il frastuono del saccheggio, ma soprattutto, poteva sentire il pianto incontrollato dell’infante. Gridò ai suoi compagni d’arme di coprire la sua avanzata e una pioggia di dardi si abbatté sui nemici, sibilando come serpi furiose nell’aria corrotta dal fumo. Squarciarono il cielo e la carne, strappando versi disumani e blasfemie irripetibili.
L’esploratore attraversò il campo di pietra, incurante della sofferenza che correva al suo fianco. Si celò alle saette nemiche riparandosi dietro le rocce che disseminavano la piazza, frammenti di edifici e vite spezzate, poi riprese agilmente la sua strada. Quando raggiunse il suo traguardo, le donne giacevano a terra inermi, dove un lago vermiglio si allargava inarrestabile sul pavimento lastricato. Le urla dell’infante rivelarono che la morte non lo aveva carpito, così si accucciò velocemente e afferrò il fagotto senza troppa cura. Non c’era tempo per la delicatezza, il brutale destino stava piombando su di loro, come una fiera affamata sulla preda ferita.
Un’altra selva di frecce oscurò il cielo, i difensori scagliavano le loro maledizioni mortali dai bastioni della fortezza. Approfittò di quella coltre assassina e scattò verso le porte della salvezza. I suoi compagni si erano già rintanati all’interno delle mura quando raggiunse l’imponente ingresso e lo trovò sbarrato. Lasciato indietro, solo con un neonato, non si fece atterrire dallo sconforto. Corse velocemente intorno alle mura, inseguito dai corni e i tamburi di guerra. I figli di Orcus caricarono il bastione, mentre gli arcieri sulle mura rilasciarono una nuova tempesta di morte.
Non si fermò e non si voltò. Conosceva gli orrori che si consumavano alle sue spalle e non aveva bisogno di guardarli in faccia per capire cosa stava succedendo. Alla sua sinistra il mare lambiva la costa, borbottando sugli scogli e sputando sul molo. Quando raggiunse una distanza di sicurezza, rallentò la corsa per tirare il fiato. Si concesse un momento per osservare il bimbo sopravvissuto al massacro e, con stupore, constatò che si trattava di un incrocio nefasto. Sangue di Orcus scorreva nelle sue vene, tradito dal pelo fulvo e la pelle olivastra.
Ebbe l’istinto di gettarlo in mare e perderlo nell’abisso dei ricordi dimenticati, ma gli mancò il coraggio. Lo strinse negli stracci e lo portò all’interno delle mura, tramite una guardiola secondaria.

All’interno della fortezza lo abbandonò tra le braccia di donne fidate, poi corse sulle mura, dove avrebbe nutrito il suo odio con il sangue dei nemici, fino a quando la morte non sarebbe giunta per reclamare la sua anima o quelle dei suoi avversari.