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La torre dell’eternità

La coda interminabile di anime si allungava a perdita d’occhio, fuoriuscendo dal grande portone dell’antica torre come una lunga lingua nera, che si perdeva oltre i colli all’orizzonte. Si mormorava che il bastione fosse stato eretto dagli Dei all’alba dei tempi e che, fin da allora, le ombre giungessero dal mondo dei vivi in questo luogo per avere il verdetto finale sulla loro esistenza passata.

Lui, come tutti gli altri, era in fila da un’eternità. Era trascorso così tanto tempo che non aveva più memoria di quando o come fosse giunto fino a lì. La sua vita precedente era divenuta un ricordo così sbiadito che non gli apparteneva più e le persone che aveva conosciuto erano state ridotte a meri spettri senza volto: più andava avanti, più smarriva se stesso.

Aveva varcato i cancelli del mastio da una vita intera, ma non ne era sicuro, forse era passato meno di quel che pensava. La percezione del tempo era completamente diversa in quell’interminabile attesa, un secondo poteva sembrare un’ora.

Il grande salone era gremito di ombre, che aspettavano trepidanti il proprio turno: sembravano un gregge di pecore nere radunate per il macello. Nonostante il numero, nel locale aleggiava il silenzio più assoluto, interrotto solo dagli ululati del vento che soffiava da nord.
L’interno della torre era buio e freddo: la pietra con la quale era stata eretta era nuda e senza cuore. Le pareti levigate e consumate, prive di qualsiasi decorazione e sprovviste di finestre, trasmettevano una immensa tristezza e una rude inospitalità.
Le tenebre, anch’esse crudeli, regnavano sovrane, eccetto dove sporadiche fiammelle violacee bruciavano senza sosta su pallide candele, illuminando le scale che salivano verso i cieli.
L’ombra sollevò lo sguardo verso l’alto, per scorgere la fine del suo tormento, tuttavia vide solo oscurità: la sommità era perduta nelle tenebre impenetrabili della torre.
I flebili fuochi, che illuminavano con scarso successo le scale, parevano ingoiati dal buio, che attendeva negli angoli alti della torre le sue prede, come una bestia affamata.
Deglutì, sconsolato, ma nella sua gola secca non scese altro che sconforto. Da quanto tempo era lì? E quanto tempo ancora doveva aspettare? Non lo sapeva, così come non lo sapevano tutte le altre anime accanto a lui. Tutti tacevano, ciascuno intrappolato nel proprio silenzio.

Quando finalmente compì il fatidico passo sul primo gradino, percepì una grande euforia, conferita dalla gioia che lo pervase in quel momento: l’ascesa era infine cominciata e presto, o tardi, avrebbe avuto la sua udienza.
Il giubilo, però, durò poco, molto poco, svanito in un lampo, così com’era giunto. Il suo sorriso tornò a spegnersi, come la fiamma di un focolare lasciato a morire lentamente.
Davanti a lui un’infinità di ombre riempiva gli scalini in silenzio, sempre in attesa. Dietro di lui, un’altra miriade di anime silenziose aspettava immobile.
La coda era interminabile, così come il tempo trascorso tra un passo e l’altro.

Nella grande sala c’era anche una scalinata che portava ai sotterranei, ma nessuno la percorreva e tutti ne stavano alla larga. Era credenza comune che sul trono posto sul fondo della torre sedesse Zaruk, signore dell’Abisso, della Menzogna e della Perdizione.
Si diceva che gli sventurati che avessero l’ardire, o la sventura, di presenziare al suo cospetto patissero atroci sofferenze.
Lui rabbrividì all’idea di trovarsi faccia a faccia con il dio decaduto: era sicuro che non ci fossero al mondo orrori peggiori di quello. Volse lo sguardo altrove, per scrollarsi di dosso l’inquietudine che il nefasto pensiero gli aveva ricamato addosso. Guardò davanti a sé, poi alzò lo sguardo sopra la sua testa. Tutto giaceva immobile, esattamente come lo aveva visto tempo addietro, come fossilizzato in un macabro diorama, rappresentante il patimento dell’infinita attesa.
Era passato tempo immemore da quando aveva risalito il primo gradino, eppure da allora, non si era più mosso da quel maledetto scalino, come se i suoi piedi fossero stati inchiodati sulla pietra consumata delle scale.
Alzò il piede destro, poi quello sinistro, sfidando le crudeli leggi che regolavano la vita in quel mondo senza tempo, ma non trovò impedimenti che lo trattenessero lì e giustificassero la sua completa immobilità. Cominciò a chiedersi come mai non si avanzava verso la sommità, ma le risposte che si susseguivano nella sua mente risultavano vacue congetture senza fondamento.
L’attesa lo stava divorando lentamente, nutrendosi dei suoi ricordi e negandogli il loro conforto: non aveva alcuna memoria felice in cui rifugiarsi, dentro di lui c’era solo il vuoto.
La situazione era sempre più insopportabile, ad ogni secondo che svaniva, alimentando un’ansia che aveva cominciato a tormentarlo crudelmente, pungolando i suoi pensieri e agitando la sua anima. Un formicolio fastidioso risalì la sua gamba sinistra, poi quella destra. Cominciò a grattarsi furiosamente, come se fosse in preda a un’irrefrenabile orticaria. Urlò a pieni polmoni insulti e bestemmie verso coloro che gli stavano davanti, ma dalla sua bocca muta non uscì nemmeno un gemito.
In preda allo sconforto aprì la sua mente alla follia, che gli fece visita suggerendogli di scendere gli scalini, anziché salirli: il passaggio era sgombro e avrebbe raggiunto il fondo in un battito di ciglia, senza dover aspettare nessuno.
Scosse la testa, come per scacciare quella pazza idea, ma più gli resisteva, più si faceva interessante: il richiamo dell’abisso era improvvisamente diventato irresistibile.
Una risata muta sgorgò dalle sue labbra scure, accompagnando con le sue note silenziose l’euforia dell’intuizione. Consapevole di aver perso il lume della ragione, si convinse di aver risolto l’antico enigma dell’attesa eterna.
Risoluto nella sua follia, scese il gradino e si aprì un varco nel gregge di pecore nere, spingendo e sgomitando fino a giungere alla scalinata che scendeva nel ventre della terra.
Le altre ombre lo guardavano incredule, cercandosi l’un l’altra con occhi stupiti, ma nessuna di loro si oppose alla sua irresponsabile decisione.
Arrivò all’imbocco della voragine che si apriva sul pavimento di pietra, nell’angolo lontano, e vi lanciò all’interno uno sguardo titubante, che si perse nell’impenetrabile oscurità.
Cominciò a scendere, da prima lentamente, poi sempre più veloce, come se una forza inarrestabile lo attirasse a sé. A ogni gradino che scendeva, si faceva largo nei suoi oscuri pensieri la malsana idea che per salire era prima necessario scendere. Forte di questa epifania, si ritrovò a correre alla cieca su quella scalinata che si avvitava su se stessa, come una interminabile spirale di tenebra.
L’aria si faceva sempre più calda e mefitica, man mano che avanzava verso le viscere della torre, come il respiro fetido di una fiera feroce. L’odore nauseabondo lo schiaffeggiava con forza, appiccicandosi su di lui come un sudario pestilenziale.
Rallentò il passo e si sporse sul pozzo nero, dove vide emergere il primo dei fuochi fatui che comparvero lungo la parte finale della scalinata. La loro luce violacea era poco più di un barlume, ma era sufficiente per illuminare la via.
Quando scese l’ultimo gradino si ritrovò in un lungo corridoio oscuro, che lo guidò all’ampia sala del trono.
Due enormi camini, posti sulle pareti laterali, sputavano alte fiamme rosse, riscaldando il locale e scacciando le tenebre negli angoli lontani del soffitto: era così alto che pareva senza fine.
Due file di colonne nere, disposte lungo il percorso centrale, lo accompagnarono fino al grande seggio di pietra, scrutandolo in silenzio come tante guardie severe. Lo scranno del potere era vuoto: di Zaruk nemmeno l’ombra.
L’anima tirò un sospiro di sollievo e si avvicinò con passo incerto. Si guardò intorno, sicuro che il dio dell’abisso si sarebbe palesato da un momento all’altro, ma il signore della menzogna non fece la sua comparsa e il brivido di paura che strisciava lungo la sua schiena scomparve, esorcizzato da un entusiasmo inaspettato. Accarezzò la roccia nera e levigata del trono, fulgida di riflessi e oscuri poteri. Era un sedile imponente, scolpito con decorazioni terribili che racchiudevano l’essenza del male.
Il desiderio s’impadronì di lui, come una nuova follia d’oltretomba. Studiò un’ultima volta l’ampio salone e, sicuro che non ci fosse nessun altro con lui, si sedette sul seggio reale: il re era morto, lunga vita al re!
Il pensiero lo emozionò a tal punto da ritagliare sul suo volto d’ebano un sorriso candido, come la neve, e soddisfatto, come solo un vincente poteva essere.
Si adagiò contro lo schienale duro e liscio, cercando una posizione confortevole sulla poltrona scomoda, ma fallì miseramente. Qualsiasi postura assumesse non era in grado di scacciare il dolore, il fastidio e il disagio che il trono infernale gli suscitava nell’anima.
Si rassegnò, infine, a quella sofferenza e posò lo sguardo sulla sua corte vuota. Le ombre danzavano al ritmo delle alte fiamme crepitanti, saltando da un angolo all’altro, tra una colonna e l’altra. Meglio la solitudine di un regno deserto, che l’isolamento di una torre gremita da anime silenti.

I suoi vaneggiamenti mentali furono interrotti da un ritmico tonfo, che si faceva sempre più forte man mano che si avvicinava. Tra il colonnato, davanti a lui, comparve una figura orripilante: un nano grassoccio e sciancato, con il lungo naso adunco e un cespuglio di capelli lanosi che circuivano il cranio calvo. I suoi piccoli occhi vitrei erano neri come le tenebre impenetrabili dell’abisso e suscitavano in lui sospetto e diffidenza. Anche il sorriso, malizioso e ammiccante, rendeva difficile provare fiducia per quell’essere di rara bruttezza.
Era vestito di stracci eleganti, sporchi e consumati. Ricordava la livrea di un maggiordomo, ma il suo portamento era tutt’altro che di classe: una squallida parodia di quello che doveva essere il servitore di un re.
Il nano si trascinò ai piedi del trono, con passo pesante e claudicante, e guardò il nuovo re con occhi irriverenti e un ghigno sprezzante. Infine, lo salutò con un imbarazzante inchino, grottesco e osceno come il suo aspetto.
L’ombra seduta sulla poltrona di pietra, lo osservò a disagio. Avrebbe dovuto sentirsi come un sovrano, soprattutto alla luce del fatto che l’obbrobrio lo aveva riconosciuto come tale, ma invece di consolidare il suo potere fittizio, lo sentì svanire, come se qualcuno lo avesse accusato di aver usurpato il potere.
Passarono qualche momento immobili, ognuno nella sua posizione, mentre le loro ombre si muovevano frenetiche sulle pareti, manovrate come burattini dalle alte fiamme dei focolari.
Il finto re fu il primo a cedere, schiacciato sotto il peso del disagio e della colpa. Si alzò mortificato e raggiunse il brutto maggiordomo ai piedi del palco reale, senza sapere bene cosa fare o come chiedere perdono.
I dubbi e i timori furono spazzati via da un improvviso terrore, che si manifestò nel suo cuore nonostante non ci fosse una reale minaccia.
Avanzò lentamente, tenendo lo sguardo fisso sul nano. Quegli occhietti neri lo osservavano come se gli leggessero fin dentro l’anima e quel maledetto sorriso beffardo non accennava a sparire da quel volto deforme. Si sentiva nudo, come se quella creatura sapesse esattamente chi lui fosse, nella vita e nella morte. Quando gli passò accanto, l’ombra del domestico mutò in una sagoma terrificante, sollevandosi dal pavimento e rivelando la sua natura mostruosa.

L’anima corse via in preda al panico, ma l’oscurità lo raggiunse con appendici flaccide emerse dall’ombra del nano, avviluppandolo in un tetro abbraccio di disperazione. Il buio lo accecò e tutto svanì ai suoi occhi: del salone, dei camini e delle fiamme, del trono e delle colonne, ma soprattutto del servitore e della sua terribile ombra non c’era più traccia alcuna. Era solo, immerso nelle tenebre. Un urlo di terrore fuoriuscì dalle sue labbra mute, ma il silenzio gli rubò la voce.

Una familiare luce grigia gli torturò gli occhi, quando li riaprì, entrando prepotentemente da una finestrella sporca e opaca. Non era più all’interno della torre, bensì nel piccolo scomparto di una carrozza, che sfrecciava su una sconosciuta strada dissestata di campagna.
Rimase spaesato per qualche istante, con gli occhi stropicciati e il corpo intorpidito. Lampi di dolore si accendevano fulminei in ogni dove, spegnendosi repentinamente dopo aver raggiunto la massima intensità.
Nel veicolo non era solo, c’erano altre otto ombre con lui: tutte schiacciate le une sulle altre per trovare un posto in uno spazio insufficiente. Avevano tutte un’espressione tragica dipinta in volto, che non prometteva nulla di buono per il loro futuro.
Sconsolato, vagò con lo sguardo fuori dal finestrino, dove il paesaggio brullo e privo di colore non faceva altro che deprimerlo di più. I campi, grigi e spogli, erano sferzati da un vento gelido, scevro di odori, che correva nel cimitero di alberi morti e neri che puntellavano la pianura, come tante lapidi di vite dimenticate. Il cielo plumbeo non dava alcun conforto, celando costantemente la fioca luce del sole, coperto da una spessa coltre di nubi.
Sospirò, chiedendosi come era finito in quel luogo desolato, ma tutto ciò che ricordava erano le tenebre e il sorriso malefico del maggiordomo.

Non dovette attendere molto per conoscere la sua destinazione, il cocchiere spettrale aveva guidato la sua carrozza dritto nella rovina: un conglomerato di edifici fatiscenti e abitazioni abbandonate.
Superarono vicoli deserti e quartieri desolati, barcollando sull’acciottolato rovinato delle strade cittadine, fino ad arrivare a una grande piazza vuota.
Quando il veicolo terminò la sua corsa infernale, un folto gruppo di donne lascive fuoriuscì da chissà dove, circondando il carro e richiamando le anime rifugiate al suo interno. Strusciavano contro le pareti e le ruote di legno scuro, cantando canzoni oscene e provocando con promesse lussuriose. Avevano forme e movimenti seducenti, quasi irresistibili, come il desiderio che suscitavano nelle loro anime impenitenti.
L’ombra assistette impotente alla furia di passione che travolse i suoi otto compagni, che spalancarono la porta della carrozza e si abbandonarono in quell’abbraccio di perdizione.
Li osservò allontanarsi con gli spettri del piacere, che continuavano a giocare con loro, fino a quando scomparvero alla sua vista in abitazioni macabre e sconosciute. Ebbe anche lui la tentazione di lasciarsi andare, ma qualcosa lo ammonì di non farsi ingannare. Scosse la testa e chiuse lo sportello in faccia all’ultima succube, che, contrariata, emise un terrificante grido prima di svanire sul posto. Poco dopo si levarono delle urla raccapriccianti da ogni angolo della piazza. Capì subito che si trattava degli otto viaggiatori e si dispiacque per loro, sebbene non avesse la più pallida idea di chi fossero.
Era la prima volta che udiva le voci di altre anime, da quando era rinato nell’aldilà, ma avrebbe volentieri fatto a meno di sentire quel coro disperato.
Tremò, in preda all’orrore che si stava consumando nei dintorni, sollevato del fatto che il suo istinto gli avesse risparmiato quella sofferenza.
Il cocchiere lo osservò con un inquietante sorriso scolpito sul viso, che risvegliò nella sua mente provata il ricordo del piccolo servitore che aveva incontrato nell’abisso, ma a differenza di quest’ultimo, lo spettro che aveva davanti era alto e snello. Il volto allungato e scavato era dominato da un grosso naso adunco sormontato da due occhietti neri e crudeli.
Indossava un vecchio cilindro giallo e rattoppato, che faceva a pugni con la giacca e i pantaloni verde pallido.
Il cocchiere scese dal veicolo e aprì lo sportello della carrozza, invitandolo a uscire. Gli disse che era libero e che si era guadagnato la sua seconda possibilità, ma lui rimase seduto sul sedile duro.
Lo studiò sospettoso, non si fidava di lui, così come non si era fidato in precedenza del maggiordomo e delle succubi. Mantenendo lo sguardo fisso, dritto negli occhi tenebrosi del cocchiere, gli parve di affacciarsi nell’abisso che si era aperto d’innanzi a lui, quando aveva osservato la scala che scendeva nei sotterranei della torre, e capì che era intrappolato nel reame della menzogna. Allungò il braccio e richiuse la porta, tormentato dalla sgraziata risata dello spilungone e dalla follia che pungolava i suoi pensieri.