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L’anfiteatro dell’orrore

La folla di ombre si accalcava all’ingresso dell’anfiteatro, spingendo e ruzzando nella massa in cerca di spazio. Nessuno voleva perdere lo spettacolo, tutti volevano i posti migliori.
La fioca luce che arrivava dal cielo grigio e cupo andava spegnendosi, quando i cancelli del circo vennero aperti. Una figura alta e sottile allargò il lungo braccio sinistro, invitando gli ospiti agitati a prendere posto nelle tribune.
Gli spettri neri in coda sciamarono all’interno, come una moltitudine di formiche disordinate. Velocemente attraversarono l’arena e si arrampicarono sulle gradinate, conquistando i loro posti con i denti e con le unghie. Ce n’era per tutti naturalmente, ma uno bramava il posto dell’altro e così veniva assegnato con lacrime e sangue.
Nonostante le lotte e i litigi, le tribune furono riempite rapidamente. Solo in due rimasero indietro, gli ultimi della coda. La coppia di ombre fu fermata dallo spettro spilungone che aveva spalancato i cancelli: con la mano destra aperta verso di loro gli aveva intimato di fermarsi. Lui e lei non si diedero per vinti e provarono a passare con la forza, ma una energia invisibile non permetteva loro di varcare l’ingresso: era come se dal palmo nero dello smilzo diramasse una invisibile barriera che gli impediva di avanzare.
Alla fine la coppia si rassegnò e smise di lottare. Rimasero alla mercé dello spettro in comando, che li ignorò rivolgendosi alla platea in trepidante attesa.
Le tribune gremite erano silenti e tenebrose: si stagliavano verso il cielo plumbeo sempre più scuro come mura vive e piene di rancore.
Sul volto nero dello spilungone si aprì un sorriso affabile e allo stesso tempo malvagio, quando invitò l’ospite d’onore a fare il suo ingresso nell’arena. Un ragno enorme comparve dal lato opposto dell’entrata e, molto silenziosamente, si avvicinò al suo ospite.
La coppia in attesa cominciò a tremare: il terrore si era impadronito di loro. Le tribune persero completamente la voce: la moltitudine di spettri che le riempiva era divenuta improvvisamente muta e immobile.
La bestia era ricoperta da un folto pelo nero, sporco e arruffato. Un’infinità di occhi rosso sangue trovavano posto sul suo muso, come una miriade di rubini scintillanti alla debole luce del giorno moribondo. Sotto di essi si apriva la bocca: una fessura a mezza luna piena di denti irregolari e acuminati, che promettevano immensa sofferenza a chiunque avesse avuto il dispiacere di finirci in mezzo.
Le lunghe e massicce zampe erano artigli affilati che grattavano il suolo sabbioso dell’arena, affondando leggermente tra i granelli di pietra e di polvere, senza produrre un singolo suono.
Lo spettro alto ed esile invitò la coppia ad entrare nell’arena, ma questi si rifiutarono. Fu inutile resistere, una forza aliena si era impadronita di loro e, muovendo le loro membra come marionette prive di vita, li costrinse ad avvicinarsi al mostro: un passo dopo l’altro.
La disperazione crebbe dentro di loro, consapevoli della fine imminente che li attendeva a pochi piedi di distanza.
Si fermarono davanti alle fauci del ragno infernale e lo guardarono dritto negli occhi: centinaia di pietre rosse che mostravano loro un’infinità di possibilità diverse, come se ciascuna di esse fosse una sfera di cristallo. Ogni scena rappresentava una fine diversa delle loro insignificanti esistenze: morte dopo morte, i due malcapitati furono certi che per loro non c’era più scampo.
Il mondo si fece più buio. L’oscurità sempre più fitta. Pareva che le ombre svanissero, inglobate nelle tenebre e divenendo un tutt’uno con esse.
Nonostante l’infausto destino fosse già scritto per loro, lui non si arrese. Afferrò la mano di lei e con forza la trascinò via di lì. Corsero lontano, lasciandosi alle spalle il demone e lo spettro: anch’essi svaniti nella notte.
Trovarono una via di fuga in una buia rampa di scale, talmente scura che non si potevano neppure vedere i gradini. Lui cominciò l’ascesa, ma ad ogni passo dei profondi tagli si aprivano sulle sue gambe, squarciando le sue carni e straziando il suo spirito. Decise di controllare cosa causasse quelle ferite, così allungò le mani verso i gradini alla ricerca di ostacoli o creature fameliche. Mai decisione fu più infelice: appena scomparse nell’oscurità anche le mani si fecero a brandelli.
Guardò la sua compagna, l’orrore ghermiva il suo cuore: erano spacciati. Gli restava solo da scegliere come morire: divorati dal demone o smembrati dalle scale.
Decise che era meglio la seconda, in quanto avrebbero comunque avuto una possibilità, anche se minima, di arrivare in cima e trovare la salvezza.
Invitò l’altra ombra a salire i gradini con lui, ma quando si voltò per osservare la sommità della scalinata, si ritrovò davanti al terribile sorriso del ragno.
Lui era in ginocchio, davanti alla bestia, con gli occhi spalancati e arrossati dal terrore. Lei era al suo fianco, rannicchiata su se stessa e scossa da fremiti incontrollabili.
In quel momento si rese conto che non si erano mai mossi da lì, il demone aveva giocato con la sua mente e lo aveva intrappolato in un incubo.
Lo spettro alto e crudele sembrava estasiato, lo spettacolo era stato di suo gradimento. Anche la platea sembrava aver apprezzato, con mormorii sommessi e sussurri eccitati.
Lui si alzò, ancora tremante, e cercò di colpire con un pugno il volto dello spilungone, ma fu immobilizzato da una forza invisibile, che lo tirava da tutte le parti.
Sentiva il corpo strapparsi in mille punti diversi. Il dolore era insopportabile. Strizzò gli occhi e urlò, a lungo, ma nessuno udì la sua angoscia. Quando riaprì le palpebre, era nuovamente in ginocchio davanti al ragno.
In quel momento capì che per ogni occhio in cui si manifestava una morte diversa, lui e lei avrebbero vissuto quella esperienza. Una, cento, mille volte, fino all’eternità: le possibilità erano infinite, come i rubini incastonati sul muso della bestia.

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