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L’urlo

Era una calda notte d’agosto, senza stelle e senza luna: entrambe rapite da banchi erranti di nubi.
L’afa opprimeva Trifalco, come una maledizione gitana pronunciata contro la città stessa: rubava il respiro e fiaccava lo spirito delle povere anime che vi dimoravano.
Un agghiacciante urlo femminile si librò nel cuore della notte, come il lamento di una banshee sventurata, frantumando il silenzio che avvolgeva il complesso numero 9 di via dei calzolai.
Emiliano Castracane si svegliò di colpo, smarrendo il sonno e alcuni battiti cardiaci. La paura gli attanagliava le viscere, stringendo con i suoi artigli spietati la sua mente annebbiata.
Boccheggiò in preda a un panico sconosciuto e allungò la mano sinistra sul materasso matrimoniale, in cerca di sua moglie. Invocò ripetutamente il suo nome, ma Irene era venuta a mancare da un paio di mesi e non rispose ai suoi richiami terrorizzati.
Il dolore che gli suscitò il ricordo della perdita danzò con il terrore che lo aveva destato, in un valzer di sofferenza e angoscia.
Rabbrividì, ma diede la colpa all’alito di vento che si era intrufolato dalla finestra aperta, come un silenzioso svaligiatore di appartamenti.
L’oscurità era impenetrabile nella sua angusta camera da letto, così come il silenzio, che era tornato a reclamare a gran voce il suo dominio.
La terrificante voce d’oltretomba pareva emersa direttamente dall’inferno, per svanire nel suo squallido e vetusto locale, come un fantasma abietto incapace di concedersi il riposo eterno.
Si mise seduto, appoggiando la schiena alla testata del letto. Ogni suo movimento, seppur composto, fu accompagnato dal cigolio della rete e dello scheletro del letto. Le sue orecchie a sventola erano tese e allerta, come due vigili sentinelle alla ricerca di una minaccia celata, ma dentro e fuori dal suo appartamento non si udiva il minimo rumore, fatta eccezione per il suo pesante respiro, il frenetico battito del suo cuore e gli inquietanti lamenti del suo vecchio giaciglio. Erano suoni flebili, ma per i suoi sensi allarmati risultavano assordanti come cannonate, vanificando i suoi sforzi per identificare possibili pericoli. Si immobilizzò per neutralizzare il fastidioso cicaleccio del letto e trattenne il fiato per ammutolire il sibilo del suo respiro, ma per il selvaggio tambureggiare nel suo petto non poté fare nulla: sembrava scandisse l’orrore di un atavico rituale di terrore. Lo ignorò, concentrandosi inutilmente verso i rumori esterni, ma tutto taceva, come all’interno di una antica cripta dimenticata.
Scrutò l’oscurità, per carpire movimenti sospetti con i suo occhi sgranati e captare suoni latori di un futuro nefasto con le sue orecchie.
L’aria era muta e immobile: nessun chiacchiericcio concitato del vicinato, nessuna sirena dei carabinieri, nient’altro che assoluto silenzio: l’urlo si era consumato nell’attimo stesso in cui si era liberato, senza lasciare nessuna traccia dietro di sé.
Cominciò a pensare di averlo sognato, così vivido e brutale da sembrare reale.

L’angoscia trascinò i suoi pensieri per un sentiero impervio, irto di paure e timori ignoti. L’urlo, che lo aveva strappato dal mondo onirico partorendolo in una oscura realtà d’incubo, poteva essere stato generato dalla vittima di un efferato crimine: un furto finito male o una tragedia domestica. Immaginò subito un furfante approfittare del caldo per intrufolarsi in uno degli appartamenti del condominio, sfruttando le finestre lasciate aperte dagli inquilini tormentati dalle terribili temperature estive. Nelle sue fisime, la vittima, una donna assonnata, avrebbe sorpreso il criminale sul misfatto, probabilmente uno di quei pericolosi immigrati senza scrupoli di cui parlavano sempre al telegiornale, causando da parte sua una violenta reazione.
D’altro canto, poteva anche trattarsi di un marito esasperato dalla vita e dal matrimonio, che aveva avuto un alterco spiacevole con la moglie ed era finito con il metterle le mani addosso.
In entrambi i casi avrebbe dovuto subito chiamare la polizia, ma non voleva farlo senza essere certo che ci fosse un crimine in atto, dopotutto, poteva anche sbagliarsi.
Forse stava esagerando, forse qualcuno aveva avuto un brutto incubo o forse, si era solo trattato del dolore di una sonnambula, che aveva picchiato il mignolo del piede contro un mobiletto che intralciava il cammino nel suo peregrinare notturno. Quante volte gli era capitato di colpire lo spigolo del tavolino in salotto, quando aveva bisogno di andare in cucina a bere un bicchiere d’acqua in piena notte? Spesso, troppo spesso, eppure non aveva mai urlato a quella maniera: la voce del malcapitato pareva essere fuggita dal suo corpo come un fiume impetuoso, con il fragore di una cascata che palesava tutto il dolore e il terrore del momento. Più ci rimuginava sopra, più si convinceva di aver udito il lamento straziato di una vita strappata prematuramente.
No, Emiliano ne era convinto, non si trattava di un banale mignolo contro un ostacolo celato dal sonno e dalle tenebre, era successo qualcosa: qualcosa di terribile che lo aveva raggiunto come uno spettro assettato della sua paura.

Dopo una manciata di secondi, che a lui parvero un’eternità, decise di sciogliere il suo immobilismo e affrontare l’oscurità della sua dimora. Il letto gracidò infastidito, quando cercò con i piedi le sue pantofole usurate.
Decise di non accendere la luce, per non allarmare eventuali criminali lì fuori e, cautamente, sbirciò dalla finestra. Dal quarto piano aveva un ottima visuale su tutta la strada e nulla sembrava fuori posto. I lampioni accesi, la cui luce si diffondeva lontana aborrendo il suo appartamento, rivelavano una via assolutamente deserta: non c’era anima viva in quell’abisso di cemento.
Si avventurò di soppiatto fuori dalla sua camera. I passi scivolavano uno dietro l’altro sul parquet consumato, che si lamentava scricchiolando silenziosamente. Quando arrivò alla soglia chiusa, tastò la superficie ruvida dell’uscio alla ricerca della maniglia e, quando la trovò, l’afferrò con decisione con la mano destra. La abbassò con estrema lentezza, per non permetterle di stridere come al solito e poi accompagnò la porta, mordendosi le labbra, sperando di evitare che producesse il lungo e macabro cigolio dei cardini. In silenzio, sudato e controllando a stento il panico, si ripromise di oliare per bene quella infame trappola acustica.
Superò il salotto agilmente, ma sempre in punta di piedi: il pavimento era costantemente pronto a gridare l’allarme, ma il vecchio tappeto persiano gli aveva dato una mano ad attutire i rumori. Anche il tavolino al centro della sala fu superato senza problemi: al contrario delle notti precedenti, Emiliano era vigile e sveglio, con tutti i sensi all’erta.
Raggiunse la porta d’ingresso e lanciò lo sguardo oltre lo spioncino: il piano, illuminato da lampade a basso consumo energetico, era oscuro e silenzioso. La luce soffusa mostrava tutta la desolazione del corridoio cupo e, in penombra, le porte sigillate degli altri appartamenti.
Appoggiò l’orecchio all’uscio, ma il silenzio assoluto gli confermò che non c’erano pericoli in agguato.
Di qualunque cosa si fosse trattato, si era concluso con lo svanire dell’urlo.
Liquidò la faccenda convinto di aver fatto un incubo, se fosse stato diversamente, i vicini avrebbero mostrato segni di vita e di allarme.
Tranquillizzato si recò in cucina, per concedersi un bicchiere d’acqua, prima di tornare tra le braccia di Morfeo.
Aprì il rubinetto e riempì distrattamente la tazza, qualcosa fuori dalla finestra aveva catturato la sua attenzione.
Quel lato dell’abitazione dava verso la campagna aperta: i prati incolti della vallata e i dolci colli umbri alle sue spalle, dove una macchia di alberi si inerpicava fin sulla vetta, erano, nella notte, un impenetrabile mare nero. Il vecchio cimitero era lì, in cima, celato dal boschetto, ma tradito dalle luci votive.
L’oscurità avvolgeva tutto in una spessa coltre di tenebra, ma alcuni lumini danzavano come fuochi vacui tra i tronchi e i rami scuri.
L’attenzione di Emiliano, però, non fu rapita da quel paesaggio così macabro e familiare, ma dalla sagoma solitaria che si stagliava immobile tra gli arbusti del campo.
La falce di luna, scoperta dal passaggio delle nubi, emerse come un ghigno beffardo nel cielo buio della notte, illuminando come un riflettore di teatro la figura femminile che si ergeva sul palco silvano.
Emiliano non poteva vedere i suoi lineamenti nel dettaglio, dalla sua posizione, ma gli parve di ammirare una donna esile, quasi scheletrica, pallida come un cadavere, con i lunghi capelli scuri che le ricadevano sugli abiti neri, da funerale.
In un primo momento pensò di aver incrociato lo sguardo con la morte e sentì il sangue raggelarsi nelle vene. Un brivido gli scivolò sul dorso della schiena, facendogli stringere le spalle e accapponare la pelle. I peli delle braccia erano ritti come una miriade di soldati sull’attenti.
Stropicciò gli occhi increduli e terrorizzati, nel vano tentativo di esorcizzare la manifestazione spettrale, ma la figura eterea rimase al suo posto, sollevò il braccio e puntò il suo indice ossuto contro di lui, in un gesto di accusa perentorio.
Rimase paralizzato sul posto, con lo sguardo fisso sull’emissario nefasto e lo scroscio d’acqua, che si riversava dal rubinetto, nelle orecchie. In quel momento di sospensione ultraterrena il fulgido pensiero di sua moglie sventrò le tenebre come una saetta e lui, ridestandosi dall’ipnosi arcana della morte, mormorò il suo nome.
L’ombra femminile svanì davanti ai suoi occhi, come se si fosse ridestato da un incubo ad occhi aperti. Nella buia campagna non vi era altro che oscurità e del fantasma non era rimasto altro che un vivido ricordo.
Emiliano chiuse il rubinetto, mandò giù per la sua gola secca una sorsata d’acqua fresca e tornò a letto, sconvolto nell’anima.
Tremava fuori controllo, percorso da brividi e scariche di panico.
Non gli riuscì di prendere sonno, tormentato dai pensieri di sua moglie e del Cupo Mietitore.
Il ricordo di una vita passata continuava a riaffiorare prepotentemente tra una riflessione e l’altra, negandogli un attimo di serenità e il sonno perduto.
All’epoca era un giovane innamorato e ingenuo, completamente smarrito nell’incantesimo di Cupido. Trasportato da una sincera passione aveva giurato alla sua compagna amore eterno: neppure la morte avrebbe potuto tenerlo lontano da lei.
Secondo quel patto, avrebbe dovuto raggiungerla all’altro mondo, ma quando la malattia se l’era portata via, lasciando dietro di sé un corpo consumato dalla sofferenza, lui era andato avanti per la sua strada: distrutto dal dolore, ma ben aggrappato alla vita.
Più ci pensava, più si convinceva che Irene fosse tornata dall’oltretomba per costringerlo a tenere fede al suo giuramento sconsiderato.
Scosse la testa, sorridendo istericamente all’idea di aver perso il lume della ragione. Si ripromise di andare l’indomani alla sua tomba, per verificare di non essere impazzito, ma l’immagine di lei, che lo indicava in mezzo al prato nero, continuava a pungolare ciò che rimaneva del suo raziocinio. Si rigirò ripetutamente sul letto, senza trovare pace, così come probabilmente faceva la sua amata nella sua angusta bara. Angosciato dalla paranoia e tormentato dai ricordi si agitava senza sosta, accompagnato dai lamenti metallici del giaciglio usurato.
La follia si rincorreva in un circolo di pensieri opprimenti e infausti, che lo schiacciavano sotto il grottesco peso dei sensi di colpa, del panico e dell’irrazionalità.

Si vestì con i primi abiti che gli capitarono tra le mani, prese la torcia e salì in macchina in fretta e furia. Doveva risolvere subito la questione, aspettare equivaleva a impazzire. Ma forse aveva già varcato i confini della ragione, perdendosi nei meandri della follia: solo i satanisti, i profanatori di tombe o i matti si recavano al cimitero di notte. Lui non faceva parte né della prima categoria, né della seconda.
Guidò come un forsennato sulla strada tortuosa e dissestata, sobbalzando a intervalli irregolari su dossi e buche naturali. I fari pugnalavano la notte, disturbando le creature delle tenebre e scacciando l’oscurità.
Quando arrivò al vecchio cimitero, lasciò la macchina accesa, per illuminare il percorso. Il cancello era chiuso, naturalmente, ma c’era lì vicino un albero antico quanto il camposanto, con larghi rami lugubri e rigogliosi che si protendevano oltre le mura della necropoli.
Emiliano non era più agile come un tempo, ma la quercia si lasciava scalare facilmente. Ci mise più tempo di quanto preventivato, ma non aveva importanza, perché era ormai giunto alla resa dei conti: in un modo o nell’altro avrebbe trovato la pace.
Saltò oltre la cinta di pietra e si slogò la caviglia. Digrignò i denti e strozzò l’urlo in gola, imprecando sommessamente.
La torcia elettrica proiettava ombre inquietanti tutt’intorno, facendole danzare come burattini spettrali che si prendevano gioco di lui.
Si incamminò con passo claudicante, superando le schiere di lapidi che si protendevano verso la luna ghignante, come un esercito di devoti adepti di pietra genuflessi.
Quando arrivò al loculo destinato al riposo eterno di sua moglie, condusse un’indagine accurata e scrupolosa, senza tuttavia trovare nessun indizio che avvalorasse l’ipotesi di un suo ritorno dall’oltretomba. Il sepolcro era intatto e non mostrava alcun tentativo di effrazione dall’interno o dall’esterno. Accarezzò la lastra di marmo rosa, rincuorato e deluso allo stesso tempo: nel profondo della sua anima addolorata sperava di riabbracciare la sua amata.
Baciò la punta delle dita della mano destra, prima di adagiarle sulla foto sorridente di Irene. Era bellissima in quel ritratto, radiosa e allegra come una ninfa.
Pensò di essere completamente impazzito, quando considerò seriamente di portare a termine il suo impegno, ma il giuramento non poteva essere ignorato, soprattutto se il sentimento era ancora tanto forte da annebbiargli la mente e riempirgli il cuore.
Più rifletteva su quella folle notte, più si convinceva di essere giunto fin lì per ritrovare l’amore perduto. Smarrita ogni ragione, strinse il destino tra le sue nodose mani e compì l’ultimo passo.

Le sue dita parevano godere di vita propria, muovendosi sapientemente come tentacoli frenetici. Scivolavano sulla fibbia della vecchia cintura di cuoio, liberandola dalla morsa gelida dell’acciaio rovinato. Emiliano, viveva il momento passivamente, come se la sua anima avesse già eseguito il passaggio nell’aldilà, dissociandosi da quel corpo fatto di carne e sangue, stanco e rassegnato.
I suoi occhi vuoti erano fissi sul ritratto della sua amata e non tradivano alcuna emozione mentre le mani stringevano la cintura intorno al suo collo, facendo passare il laccio all’interno del fermaglio.
Il pomo d’adamo sobbalzò un paio di volte, quando il vedovo degluitì, strisciando contro il cuoio ruvido avvinghiato alla gola.
Senza l’ombra di un pensiero o lo spettro di un rimorso, la mano destra strattonò con forza la cintura, mentre la sinistra, aggrappata al laccio, tirava in senso contrario, lottando istintivamente per la sopravvivenza.
Una forza aliena si era impossessata dell’arto assassino, costringendolo a stringere sempre di più il cappio rudimentale che gli stava strappando la vita, portandogli via il respiro.
Una sorta di disperata rassegnazione lo pervase, estirpando nel braccio mancino la volontà di continuare a lottare.
Emiliano boccheggiò come un pesce fuor d’acqua, mentre l’aria strisciava faticosamente per la cavità ostruita.
Il suo corpo, sussultò un paio di volte, prima di giacere inerme sul lastricato di pietra bianca.

Il sole che sorse la mattina seguente trovò due anime ricongiunte nell’aldilà.