Le goccioline fini e sporadiche che cadevano dal cielo, ingrigito da un branco di nembi nomadi, erano la prima avvisaglia di un temporale che si sarebbe scatenato da un momento all’altro e il volo basso di passeri e piccioni, che planavano da una parte all’altra della strada in cerca di un rifugio sotto i tetti dei palazzi, era un’altro segno che il firmamento avrebbe riversato sulla città il suo dolore o il suo disprezzo.
Non si udivano tuoni nell’aria e non si vedevano lampi o fulmini fendere il cielo plumbeo: sarebbe stato un piatto e silenzioso rovescio, come un secchio di liquami gettato distrattamente dalla finestra da una casalinga sovrappensiero.
Enrico “Enri” Zucconi non parve preoccupato dalla minaccia di pioggia, aveva con sé il vecchio ombrello di suo padre: lungo e scomodo, con il pesante manico di legno, la punta d’acciaio e l’ampio telo di colore blu scuro. Era, più che altro, infastidito al pensiero di dover salire sull’autobus e condividere lo spazio con passeggeri potenzialmente fradici o ingombranti coi loro ombrelli e zaini bagnati. Sospirò sconsolato, in attesa dell’arrivo del mezzo pubblico, che come al solito era in ritardo, sperando che il tempo reggesse quel tanto che bastava per non dover affrontare il disagio che prospettava.
Si guardò attorno, ciondolando sul posto e sbuffando impazientemente. Alle sue spalle la bronzea statua di Garibaldi dominava piazza Vittoria, giudicandolo con il suo sguardo severo e la sciabola ben salda nella sua mano destra. Tiranneggiava sul suo piedistallo di pietra, imponente e ammantata di antica gloria, nonostante la malattia la divorasse come un cancro inarrestabile, conferendole un colorito verdastro e un’aria desolata. Oltre la scultura, dall’altra parte della strada, si estendevano le antiche mura romane, che cingevano la città vecchia in un abbraccio secolare, e Porta Torre, che si innalzava fiera e massiccia verso il cielo ostile.
Tutto intorno a lui compagnie di ragazzi bighellonavano in attesa dei mezzi pubblici che li avrebbero riportati a casa, dopo una lunga e noiosa mattinata di scuola. Il chiacchiericcio studentesco si fondeva con i rumori della strada, in una cacofonia disturbante che lacerava i suoi pensieri cupi, facendolo sentire ancora più solo. Nessuno dei suoi amici rientrava con lui, abitavano in città o in altre zone della provincia. Per ritrovarli doveva accendere il computer in camera sua, collegarsi ad internet e giocare con loro online.
Non vedeva l’ora di sedersi alla sua seggiola e immergersi nel mondo virtuale, dove si sarebbe divertito a fare l’eroe, a cercare tesori e far crescere il suo alter ego digitale, vivendo avventure con i suoi fedeli compagni.
La sua attenzione fu rapita da una strana figura, che si palesò davanti ai suoi occhi, strappandolo ai suoi sogni videoludici.
Un vecchio, dall’aspetto inquietante, avanzava verso di lui a piccoli passi stanchi, ciascuno dei quali sembrava dovesse essere l’ultimo della sua miserevole vita. Aveva radi capelli canuti, lunghi e unticci, una barba incolta, stopposa di color bianco sporco. Gli occhi chiari erano vitrei e lo sguardo assente vagava perso nei meandri dei suoi pensieri, sotto due sopracciglia folte e candide come la neve. Era basso, esile e scarno. Nonostante non dovesse pesare più di cinquanta chili, il suo braccio, assicurato a un vecchio bastone, tremava convulsamente sotto il peso del suo corpo, come se il suo rachitico arto reggesse il mondo intero. Si spostava a fatica sul marciapiede, trascinandosi in avanti e arrancando verso l’ignoto. Si voltò verso di lui e tese il braccio scheletrico, forse in cerca di aiuto. La bocca era spalancata e rivelava pochi denti, tutti in pessime condizioni. Dalla sua gola proruppe un verso grottesco, cavernoso: un lungo gemito monosillabico, che gli ricordò l’urlo di battaglia dell’orda dei morti viventi.
Enri sentì la pelle accapponarsi sotto gli abiti: i peli biondi ritti sull’attenti, come a salutare l’orrore che li aveva destati. Possibile che stesse accadendo sul serio?
Guardò in quegli occhi chiari, così azzurri da sembrare grigi, in cerca di una conferma e ci vide la morte, in una delle sue forme più orride e disgustose. Si scostò sul lato destro dello zombie, con un movimento così fluido e fulmineo che gli sembrò di essere super veloce, ma questa impressione gli fu dettata dai movimenti molto lenti della mostruosità che stava affrontando.
Senza pensarci su due volte, colpì col suo ombrello il volto tirato e sofferente del cadavere animato, scaraventandolo a terra. Un rumore raccapricciante di ossa frantumate riempì l’aria, subito seguito a urla isteriche di terrore.
Lui le ignorò, continuando a colpire alla testa il morto vivente con il pesante manico del suo ombrello, inebriato dalla consapevolezza di essere un eroe: un vero eroe in carne ed ossa. Aveva fermato il primo, ma ne sarebbero giunti degli altri, era sempre così. In tutti i film, fumetti e videogiochi che aveva seguito, l’epidemia cominciava con piccoli casi isolati, per poi esplodere in una pandemia incontrollabile, che avrebbe causato l’estinzione del genere umano e il sopravvento dei non morti.
Finito lì, avrebbe dovuto raggiungere subito casa, per preparare la sua famiglia e predisporre le difese che gli avrebbero garantito la sopravvivenza,
I suoi folli ragionamenti furono interrotti da ragazzi più grandi, che si fecero avanti tra il panico generale per fermare la sua pazzia: gli strapparono l’ombrello dalle mani e lo bloccarono a terra con i loro corpi. Intorno a loro, un anello di studenti scattava foto o girava video con i loro telefoni, commentando sconvolti l’accaduto, mentre altri urlavano, piangevano o scappavano.
Enrico cercò inutilmente di liberarsi, dimenandosi come un pesce fuor d’acqua. Urlò esasperato le sue motivazioni, ma nessuno gli diede retta. Si sentì come Cassandra, prima della caduta di Troia, impotente e disperato.
Quando le sirene della polizia si fecero più intense, man mano che si avvicinavano, capì che i veri eroi sarebbero stati i due ragazzi che lo avevano immobilizzato e, nella loro ignoranza, non avrebbero capito che invece si stavano condannando tutti a un orribile destino.