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Buondio

Diego Castagnoni, conosciuto come “Buondio” per la sua attitudine alla bestemmia, era un uomo dedito ai vizi più spregevoli: il gioco d’azzardo era la sua professione, le donne di malaffare la sua famiglia e il vino, buono o scadente che fosse, il suo passatempo preferito.
Si circondava solo di conoscenze poco raccomandabili, che gli garantivano accesso alle discutibili passioni della sua vita. Spesso e volentieri queste frequentazioni disoneste lo mettevano in una brutta posizione. Il gioco gli aveva portato via le ricchezze, costringendolo a una vita di delinquenza per ripagare i debiti; la prostituzione aveva allontanato la sua famiglia e lo aveva castigato con la malattia; gli alcolici, invece, lo avevano derubato della sua buona reputazione, rendendolo schiavo del bicchiere, nel quale affogava i suoi tormenti infiniti.
Non era contento della spirale di rovina in cui era intrappolato, ma era assuefatto dai piaceri con cui le sue depravazioni ripagavano la sua inesorabile discesa nell’abisso, motivo per cui fintanto che i satiri avrebbero continuato a suonare la loro musica, lui avrebbe seguitato a danzare con la dea bendata, il dio caprino e il dio vizioso.

Era una notte come tante, quella che vide Buondio barcollare fuori dalla bettola più infima di Trifalco, una cittadina di origini preromane arroccata sull’omonimo colle umbro, per trascinarsi attraverso i bassifondi alla ricerca delle ancelle di Afrodite.
Era completamente ubriaco e cercava la compagnia di una donna per scacciare la delusione che Fortuna aveva suscitato nel suo cuore disperato: una serie di giocate infelici che gli erano costate tutto ciò che gli era rimasto.
Il vicolo in cui si era avventurato era buio e scarsamente illuminato dalla luce della taverna, che usciva faticosamente dalle sue finestre opache e sporche. Il chiacchiericcio allegro e la musica di sottofondo stonavano con il suo umore, che era nero come la pece e opprimente come una tirannide spietata. Non era la prima volta che si trovava in quella situazione; a dire il vero, ci finiva di frequente. Avrebbe dovuto studiare un colpo importante, per poter ripagare i nuovi debiti e quelli vecchi, ma prima aveva bisogno del conforto che solo una donna di mondo gli poteva fornire.
Un paio di loschi figuri, appoggiati alla parete di pietra della locanda alle sue spalle, sghignazzarono al suo passaggio, mentre un drappello di prostitute metteva in mostra la mercanzia dall’altra parte della strada.
L’ubriaco trascinò i suoi passi incerti sul selciato, con estrema fatica, biascicando parole incomprensibili alle ragazze, che lo attendevano deridendolo senza pietà. Nessuna di loro si sarebbe concessa a credito, soprattutto con un essere squallido come lui, ma la sicurezza del vino lo spronava ad avanzare: in un modo o nell’altro avrebbe ottenuto ciò che bramava.
Un rumore di zoccoli e ruote di legno, che correva sulla strada lastricata, attirò la sua attenzione, facendolo voltare a destra in un gesto semplice ma precario. Oscillò pericolosamente sul posto, rimanendo in piedi per miracolo. Sentiva il mondo ondeggiare sotto i suoi piedi, come se si fosse scatenato un terremoto. Era troppo ubriaco per rendersi conto che il mondo era immobile, mentre lui si agitava come uno sciocco in mezzo alla via, ma non abbastanza da non capire che stava per essere travolto da una diligenza.
La carrozza nera, trainata da quattro morelli imbizzarriti, sfrecciava a grande velocità verso di lui, senza alcun accenno da parte del cocchiere a fermare la folle corsa. Al contrario, invece, l’uomo che teneva le redini schioccava le cinghie esortando i destrieri al galoppo.
Era una figura anonima, oscura nelle tenebre della notte. Le lanterne accese, assicurate agli angoli superiori della carrozza, oscillavano impazzite a destra e a manca ed evidenziavano i contorni del conducente in una sagoma esile e allungata, accentuata da un cilindro scuro che faceva coppia con il soprabito nero che indossava.
A Buondio ricordava un’ombra demoniaca sputata dalla bocca dell’inferno, giunta a Trifalco per reclamare la sua anima impenitente. Il sorriso diabolico disegnato su quel volto pallido, seminascosto dall’oscurità, gli suggerì, in un brivido che lo percosse fin dentro le membra, che era giunta la sua ora, svegliandolo dal torpore suscitato dal vino e irrigidendolo come un cadavere.
Era così teso che sentì i suoi denti marci incrinarsi nella sua bocca, sotto la pressione delle mascelle serrate. Gli occhi spalancati erano colmi di terrore, che sgorgò in fiumi di lacrime e urina, rigando il suo sgraziato volto deturpato e infradiciando le sue gambe malferme.
Quando i morelli gli passarono attraverso, seguiti dal cocchiere ghignante e dalla carrozza nera che trainavano, non ebbe la forza di urlare o di alzare le braccia per difendersi dall’urto. Rimase immobile, irrigidito sul posto come un palo piantato nel terreno.
Lo scalpiccio degli zoccoli e il fragore delle pesanti ruote si allontanò alle sue spalle, svanendo come uno spettro nelle tenebre della notte.

I loschi figuri appoggiati alla parete della taverna e le donne di malaffare dall’altra parte del vicolo scrutarono il miserabile bloccato a metà strada, tra la locanda e il bordello, trovandolo privo di vita e impietrito come una statua. Il cadavere era cianotico e freddo, e si ergeva eretto sui suoi piedi come una macabra scultura scolpita dalla morte stessa. Le sue labbra bluastre erano arricciate come a pronunciare il suo solito “Buon Dio!”