Il guerriero affamato di gloria si avventurò nel territorio maledetto, dove voci senza nome avevano collocato un terribile mostro. Appena aveva udito la storia, aveva raccolto il suo equipaggiamento e si era incamminato verso il nemico, guidato dalla promessa che l’impresa lo avrebbe reso un eroe immortale.
Quando giunse all’ultimo centro abitato, che sorgeva sul limitare del bosco popolato dal mostro, si fermò per raccogliere informazioni sul suo bersaglio. Alle sue domande, tutti gli uomini e tutte le donne scuotevano la testa rassegnati, ripetendo sempre le stesse parole: nessuno sapeva cosa si celasse nella boscaglia, ma tutti erano certi che vi dimorasse una creatura terrificante.
Il guerriero capì che le voci erano partite da questo villaggio, trasportate dal vento e da coloro che avevano abbandonato le proprie abitazioni per paura del mostro. Ebbe un tentennamento, indeciso se dare credito a quelle parole senza fondamento o se ignorarle per evitare ulteriori perdite di tempo. Tuttavia, dopo una rapida riflessione, decise che valeva la pena indagare: aveva affrontato un lungo viaggio per arrivare fin lì e di certo molte persone erano scomparse in quella terra dimenticata dagli dei. Molti erano aspiranti eroi come lui, altri erano abili cacciatori. Di qualunque cosa si trattasse, sicuramente portava con sé gloria e fama.
Come a benedire il suo coraggio, il sole comparve da dietro una coltre di nubi. I suoi dorati raggi affilati squarciarono i nembi grigi, investendolo di luce divina. Apollo era con lui. Fulgidi riflessi scaturirono dal suo equipaggiamento bronzeo, volando tutt’intorno come saette scagliate dal suo elmo, dalla sua lancia e dal suo scudo di bronzo.
Sarebbe stata una scena gloriosa, se gli abitanti del villaggio ammassati attorno a lui avessero esaltato il suo nome, invece il silenzio sconsolato si contrappose alla sua fierezza come un oscuro presagio infausto.
Sbuffò irritato, poi si incamminò verso la direzione indicata dai villici sventurati.
Il bosco era fitto e la luce del sole penetrava a fatica tra le rigogliose fronde degli alberi. L’unione violenta tra l’astro e la flora generava ombre mutevoli, che cangiavano di forme e dimensioni, quando il soffio della brezza pomeridiana muoveva i rami come marionette nelle sue mani.
Non si udiva alcun suono, all’infuori dei suoi passi sul manto erboso e del fruscio scostante degli alberi, che parevano sussurrargli alle orecchie incomprensibili avvertimenti. Non si udiva un fringuello cinguettare e un grillo frinire. Lo interpretò come un nefasto presagio, che confermava la sua vicinanza al mostro. Il cuore sussultò quando vide un’ombra dalle sembianze umane tra i tronchi degli alberi.
Si avvicinò con passo cauto: lo scudo posizionato davanti a sé e la lancia pronta ad allungarsi verso il bersaglio. Sembrava che lo sconosciuto non si fosse accorto di lui, ignaro della sua minacciosa presenza, ma quando lo raggiunse, scoprì che si trattava di una statua di un cacciatore. La manifattura era pregevole, così ben realizzata da sembrare vivo. La posa era curiosa: normalmente gli scultori prediligevano delle posture più nobili, sensuali o epiche; in questo caso, invece, l’artista aveva catturato l’essenza stessa del terrore.
L’espressione era il ritratto della paura e il portamento del corpo non faceva altro che sottolinearlo, esaltando questo aspetto. La scultura raccontava una storia d’orrore e sconfitta.
Un brivido lo percorse lungo la schiena, ma diede la colpa all’aria fresca che si alzava di tanto in tanto.
Si chiese quale artista fosse così coraggioso da erigere un monumento di tal pregio in un territorio ostile come quello, poi realizzò che probabilmente si trattava di un omaggio alla creatura: un silente monito per gli incauti che si avventuravano da quelle parti.
Si lasciò alle spalle l’avvertimento di pietra, determinato più che mai a portare a termine la sua sfida, ma più si inoltrava nel bosco, più si facevano frequenti quelle strane statue. A volte erano singoli elementi, a volte un nutrito numero di esemplari. C’erano guerrieri, cacciatori, fanciulle e bambini, ma non erano solo rappresentazioni umane, comparivano anche bestie di ogni genere: volatili, cervi, lupi. Nessuno era dimenticato e tutti trasmettevano la stessa terribile emozione: profondo terrore.
Il cuore cominciò a battergli all’impazzata, non aveva ancora realizzato l’orribile verità, ma inconsciamente lo aveva già capito: quelle magnifiche statue non erano il frutto di una mano umana, bensì del tocco crudele della creatura. La scoperta lo colpì come un pugno sul grugno e la paura si strinse sul suo cuore, come le fauci di una fiera feroce che azzannano la loro preda inerme.
Sudore freddo trasudò dalla sua pelle impolverata, scivolando sul viso e il corpo scolpito. Si prese qualche momento per dominare il suo animo inquieto e ne scaturì una feroce battaglia per il predominio del proprio corpo. Riuscì a sopraffare il panico, esorcizzato dal suo cuore e dalla sua mente. Il respiro affannoso si placò e tornò a essere il fiero guerriero che aveva sempre creduto di essere.
Gli alberi attorno a lui danzavano al ritmo del vento, come un circolo di sacerdoti con le braccia rivolte al cielo. Il loro canto ridotto a un sussurro frusciante intonava una melodia macabra, esortandolo a tornare sui suoi passi, ma lui aveva sconfitto il terrore e la ritirata non era una possibilità valida.
Quando la brezza svanì e gli alberi tornarono immobili, il guerriero udì un pianto sommesso provenire da qualche parte nei dintorni. Seguì quel flebile suono, poteva trattarsi di un sopravvissuto ferito e impaurito. Man mano che si avvicinava, il singhiozzo diveniva più forte, rivelando una presenza femminile.
La trovò in una radura, inginocchiata dinanzi alla statua di un uomo bello e fiero. Che si trattasse del suo innamorato? Ma la cosa che lo colpì non fu la vista dell’ennesima vittima pietrificata, fu l’orrore partorito dalla sgradevole e orripilante figura genuflessa ai suoi piedi: mostruose ali dorate uscivano dalla sua schiena, come arti sgraziati ereditati dall’unione empia di un uomo con una bestia. Le vesti lacere e sporche ricadevano sul suo dorso, ricoprendo appena le sue nudità posteriori. Sulla testa, al posto di una bella chioma, si muoveva un groviglio di serpenti sibilanti, dalla cui bocca fuoriusciva minacciosa la loro lingua biforcuta.
Decise di approfittare di quel momento di vulnerabilità per attaccare quella mostruosità alle spalle: non un gesto di cui andare andare fieri, tutt’altro che eroico. La storia che avrebbe narrato al suo rientro avrebbe descritto eventi completamente diversi: una lotta epica, un trionfo glorioso.
Posizionò lo scudo davanti a sé e la lancia in formazione d’attacco. Uscì silenziosamente dalla boscaglia e si avvicinò con passo leggero alla sua preda. I sandali di cuoio si adagiavano leggiadri sul manto erboso, senza produrre alcun suono che potesse tradire la sua presenza.
Non aveva pensato, però, che i serpenti potessero avere una volontà in comune con quella creatura: erano tanti e permettevano una visione a 360 gradi. Cominciarono a sibilare e contorcersi freneticamente, con la lingua biforcuta che appariva e spariva tra le fauci con una rapidità disarmante. Alcuni avevano la bocca spalancata e mostravano minacciose zanne ricurve.
L’orribile donna si voltò verso l’aggressore, osservandolo da sopra la spalla sinistra torcendo il torace.
Fu un attimo, che durò un’eternità. I loro sguardi si incrociarono e lui si ritrasse da tanto orrore. Si sentì immobilizzato sul posto: il suo corpo non rispondeva più alla sua volontà. Gli arti rigidi erano paralizzati e perdevano di sensibilità svanendo dalla coscienza. Il corpo intorpidito seguì il loro triste fato e, inconsciamente, il guerriero si rese conto che la sua carne stava mutando in pietra. Presto avrebbe fatto parte della triste collezione della creatura senza nome.
Il suo ultimo sguardo, deformato dalla paura e dal disgusto, aveva catturato l’orrida immagine offerta dal volto mostruoso della donna maledetta, preservandola per sempre nei suoi occhi di pietra.
La donna corse verso il guerriero, l’ennesima vittima del suo fato avverso. Le lacrime amare rigavano il suo volto disperato, bagnando le guance butterate e la larga bocca, da cui fuoriuscivano due lunghe zanne suine.
Si aggrappò a quella nuova macabra compagnia, supplicando gli dei di salvare quell’anima innocente, ma loro la ignorarono, come facevano sempre.
Singhiozzò, abbandonandosi nello sconforto: ancora una volta, il suo castigo divino aveva reclamato una vita che non aveva colpe. I serpenti sulla sua testa si contorcevano inquieti, manovrati dai mesti pensieri che popolavano la mente sconsolata di Medusa.
Maledì la sua sventurata esistenza, inveendo oscenità all’indirizzo di Atena, quella vipera mascherata da dea, senza risparmiare Nettuno, l’amante codardo che l’aveva abbandonata ad un orrido destino. Pianse convulsamente al ricordo di quella funesta notte d’amore: il tempio della dea, il dio del mare e l’altare violato dalla loro passione carnale.
Corse al ruscello, guidata da una disperazione senza fine, e osservò il suo sgradevole riflesso sulle acque increspate dalla corrente. Le serpi sibilavano sommessamente e il bosco piangeva con lei. Quante volte aveva provato a mettere fine alla sua esistenza? Innumerevoli, ma la sua maledizione l’aveva sempre tradita.
Singhiozzò, accucciata sulla riva del torrente, rimembrando un passato gioioso nel futile tentativo di dimenticare, anche solo per un attimo, il suo terribile destino. Ovunque si voltasse, il suo sguardo sconsolato incrociava quello terrorizzato delle statue, che sorgevano tutto intorno in un costante memento del suo amore maledetto.