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Fuga al crepuscolo

Il sole, basso sull’orizzonte, stendeva un tappeto rosso sulla superficie increspata del mare, omaggiando la regina della notte che sopraggiungeva, alta e fiera, in un cielo cangiante da sfumature vermiglie a tonalità celesti via via sempre più scure. A breve sarebbe comparso anche il suo corteo, in una miriade di damigelle splendenti.
La brezza d’inizio primavera soffiava dolcemente da levante, flirtando con le onde irrequiete che spumeggiavano al suo passaggio. Suggeriva con grazia di rientrare per la sera e il vecchio pescatore accolse di buon grado la proposta.
La giornata non era stata proficua, ma non poteva lamentarsi del bottino. Si sistemò sulla sua piccola imbarcazione, muovendosi con agilità e sicurezza sullo scafo ondeggiante. Mentre trafficava con le sue vecchie mani nodose, lanciò il suo sguardo stanco sulla riva, dove il sole morente colorava con le sfumature del tramonto la facciata del bastione e la spiaggia desolata.
Sul lembo di sabbia non c’era nessuno, a parte tre anime in pena. Gli armigeri dovevano essere di ronda, ma mantenevano un andatura spedita per non perdere il passo della bestia che tenevano al guinzaglio. Da come tirava il laccio, pareva che fosse lui a portare in giro il terzetto e non viceversa.
Sorrise beffardo, mentre riponeva con cura la lenza, la canna da pesca e le esche.
Assorto nelle sue operazioni gli balenò per un istante un’idea, fulgida come un lampo nella tempesta: erano forse sulle tracce di qualcuno e la bestia tirava così forte perché aveva fiutato una traccia fresca? Probabilmente pregustava il sangue e la carne della preda. Rabbrividì, rincuorato dal fatto che non fosse lui l’oggetto della sua cerca.
Istintivamente velocizzò i suoi movimenti, le sue dita sembravano danzare tra gli arnesi da pesca e gli strumenti di bordo. Non voleva essere coinvolto in alcunché, una volta raggiunta la riva.
Si avvicinò alla spiaggia, cullato dolcemente dalle onde del mare, mentre l’imbrunire colorava la superficie d’ambra e il cielo di un manto nero. I cannoni della fortezza emettevano gli ultimi bagliori, amoreggiando con i raggi bassi del sole calante.
C’era qualcosa di strano in quel quadretto anonimo. La belva, sgraziata nelle sue grottesche forme canine, scartava a destra e a sinistra, attaccando i piedi dei due malcapitati che avevano avuto la sfortuna di essere assegnati a quel turno di guardia, facendo squadra con il mastro di cani. Li costringeva ad arretrare e a mantenere una distanza di sicurezza, prima di tornare a tirare davanti a sé con grande impeto. Appena i due tentavano un avvicinamento, la bestia tornava ad azzannare i loro stivali. Era una creatura sgradita alla vista: muso schiacciato, con gli angoli delle fauci colme di bava ripugnante; le zampe anteriori, lunghe e muscolose, si contrapponevano a quelle posteriori, tozze e corte. Il pelo scuro e striato di nero lo facevano apparire più minaccioso, come le decorazioni di guerra tipiche di alcune tribù indigene.
Il pescatore rabbrividì al pensiero di come avrebbero potuto ridurre il poveraccio se quelle zanne lo avessero ghermito.
I pistoleri sembravano allegri, al contrario del mastino, che pareva rabbioso e famelico. La brezza, che spirava dalla costa verso il mare aperto, gli sussurrava le loro risate e i latrati furiosi.
Ora il vociare del trio giungeva più nitido alle sue orecchie: le voci allegre erano sovente interrotte da urla di spavento, che venivano puntualmente coperte da imprecazioni, nuove risate e dai latrati selvaggi della fiera feroce.
Il mastro di cani, che camminava al centro della formazione, era in evidente difficoltà: le braccia erano tese, i muscoli tirati e le dita strette sul guinzaglio. Dava fondo a ogni briciolo di forza che aveva in corpo per frenare la bestia, eppure veniva trainato come se nulla fosse. Alla fine riuscì a impuntarsi nella sabbia, arrestando la corsa del giovane mastino. Fece dei cenni sofferenti agli altri e le risate cessarono all’istante, assassinate dalla gravità della situazione. I sorrisi increduli svanirono come spettri alla luce del sole, quando i due compagni realizzarono, scambiandosi un fugace sguardo, il pericolo imminente: l’amico era allo stremo e presto avrebbe mollato la presa sul guinzaglio. La paura li colpì allo stomaco con la violenza di un cazzotto ben assestato da un lottatore professionista, mettendogli le ali ai piedi.
Cominciarono a correre come se avessero il diavolo alle calcagna, inseguiti dalle urla dell’amico che gli esortava a non fermarsi per nessun motivo al mondo.
L’inquietudine gli annodò un groppo in gola: quella storia poteva concludersi solo in tragedia. Si ritrovò a gridare anche lui, portando le mani nodose e callose alla sua bocca, per amplificare la sua voce cavernosa.
Uno dei due soldati imprecò disperatamente quando, voltandosi per valutare la situazione, si rese conto che la belva infernale era stata rilasciata e si stava avvicinando rapidamente con una grazia che non gli apparteneva e una ferocia che lo spronava.
In un’altra situazione, probabilmente, avrebbe ammirato tanta eleganza, ma non in quell’occasione. In quell’occasione era uno spettacolo terrificante, tale da gelare il sangue nelle vene e fermare il cuore nel petto.
L’altro chiese qualcosa ansimando: era chiaro che temesse il peggio. Il primo gli urlò di correre e non voltarsi indietro, ma quello ignorò il suggerimento e strillò di terrore quando vide la morte in faccia: la bestia correva indemoniata verso di loro, con le fauci spalancate e la lingua penzoloni sul lato della bocca grondante bava.
Probabilmente potevano sentire il suo fiato sul collo, pensò. Non ce l’avrebbero fatta.
La loro unica possibilità di salvezza era la guardiola dalla quale erano usciti sulla spiaggia, ma avrebbero perso tempo ad aprire il massiccio battente. Forse uno di loro se la sarebbe cavata, ma per il secondo non ci sarebbe stato scampo.
Rimase sorpreso nel constatare che i due fuggitivi non puntavano ai vecchi gradini rovinati, che portavano all’ingresso della torre, ma correvano dritti verso le basse mura sopraelevate sulla roccia al piano terra del bastione. Grazie agli scogli che giacevano ai suoi piedi, avrebbero potuto arrampicarsi al terrazzo panoramico, trovando la salvezza che tanto agognavano. La belva non avrebbe potuto raggiungerli lassù, ma era sempre più vicina e la loro fine con essa.
Le loro ombre volavano sulla sabbia immobile, come spettri che fuggivano dall’orrore della realtà che i loro corpi materiali stavano vivendo.
I due raggiunsero le rocce disordinate ammucchiate alla base della costruzione e si arrampicarono frettolosamente sulla parete di pietra. Il primo balzò agilmente e si issò sul cornicione del terrazzo con uno sforzo disumano: la disperazione fa di questi miracoli. Il secondo, invece, scalò con fatica l’ostacolo, ma le fauci che si richiudevano sotto il suo piede gli diedero l’energia necessaria per raggiungere il traguardo e la salvezza.
I ringhi e i latrati della bestia infernale li raggiunsero fin lassù, ma loro non se ne curarono. Si fissarono un secondo, prima di lasciarsi andare a risate nervose di sollievo. Ce l’avevano fatta: loro erano al sicuro lassù, mentre la belva schiumava di rabbia laggiù. Frustrata, continuava a saltare a destra e a manca, guardando le sue vittime irraggiungibili.
Il mastro dei cani li raggiunse camminando tranquillamente, poi riprese il guinzaglio e domò la sua creatura, mettendo ufficialmente fine a quella follia. Era evidente che fosse sollevato dal fatto che la tragedia non si fosse consumata, ma il pescatore sapeva che il suo dramma si sarebbe compiuto nelle prossime ore: difficilmente quei due avrebbero lasciato correre così facilmente un tradimento come quello.
Poteva sentire le sue scuse perdersi nella sera, coperte dagli insulti e dalle imprecazione dei superstiti. Calò i remi in acqua e si avviò verso un punto più lontano della spiaggia: non aveva alcuna intenzione di attraccare vicino al gruppetto di sbandati. Sorrise al tramonto e tornò a casa scuotendo la testa incredulo.