La ghiaia scricchiolava sotto le suole dei suoi scarponi impolverati, mentre percorreva la stradina che si inerpicava sul fianco del monte.
Avanzava lentamente, con passo guardingo, imbracciando il fucile e guardandosi intorno con circospezione. Le orecchie tese, a carpire suoni sospetti che preannunciassero un pericolo imminente. Tutto intorno a lui, alberi spogli e morti puntellavano il suolo, come artigli neri che si protendevano verso il cielo grigio.
Quando alla sua sinistra si aprì uno scorcio verso la vallata, mostrando la cittadina sottostante, si accucciò sul crinale e prese il binocolo dalla custodia che portava sulla schiena, assicurata al cinturone. Lo portò sugli occhi e allungò lo sguardo sugli edifici fatiscenti e abbandonati che giacevano sotto di lui, alla ricerca di movimento o di qualsiasi forma di vita. Dall’esterno il centro urbano appariva immobile e desolato, ma lui sapeva che sotto quelle tombe di mattoni e cemento brulicava il pericolo. Era sempre così: o si trattava di sopravvissuti, o di mutanti, o di qualcosa di peggio. In ogni caso era sempre meglio starne alla larga. Lui evitava sempre le città, se poteva farlo, ma ora si sentiva in trappola. La fame e la necessità di recuperare risorse lo spingevano ad ignorare la cautela e ad affrontare il pericolo. Ripose il binocolo, strinse il fucile e con un sospiro riprese la marcia, scendendo verso l’inferno.
Si era allontanato di pochi passi, quando un vociare alle sue spalle lo paralizzò sul posto. Urla rabbiose fagocitavano lamenti straziati, volando tra gli alberi e giungendo alle sue orecchie. Rimase immobile per qualche istante, poi decise di andare a dare un’occhiata: nell’aria annusava l’odore di opportunità.
Risalì il pendio guidato dalle voci, che divenivano più chiare e intense man mano che si avvicinava. Si fermò a distanza di sicurezza e si sdraiò a terra, celandosi nel sottobosco. Strisciò sul tappeto di rami secchi e trovò riparo dietro il grosso tronco di un albero caduto. Davanti a lui si ergeva un casolare in pessime condizioni: non una finestra era più integra, alcune avevano ancora dei frammenti di vetro incastonati nella cornice come le zanne di una fiera morente; i battenti delle imposte erano caduti o sbilenchi, agganciati a cardini arrugginiti che lottavano strenuamente e inutilmente per rimanere al loro posto; una parte del tetto era crollato impietosamente su se stesso, lasciando una voragine là dove il comignolo di pietra si era arreso all’inevitabile declino.
Poco distante dall’edificio un uomo macilento, vestito di stracci, trascinava un ragazzino per i capelli, esortato da due donne bercianti, tutte pelle e ossa, anch’esse agghindate con abiti laceri e sporchi. Lo aspettavano in veranda, sull’uscio di casa.
Potevano essere una famiglia di sopravvissuti che aveva catturato un mutante, o ancora meglio: il contrario. In ogni caso aveva fatto tombola. A meno che non fossero cannibali che avevano rapito un altro sopravvissuto: quella sarebbe stata proprio una brutta storia. I mutanti si possono mangiare, sono amari e coriacei, ma restano commestibili. Divorare un altro uomo, invece…No, assolutamente no.
Liquidò quest’ultimo pensiero con un pesante sospiro, poi si sporse fuori dal nascondiglio puntando il fucile verso l’uomo che strattonava il ragazzo. Spostò la mira verso le due donne e premette il grilletto. Un tuono zittì i quattro. Il bersaglio cadde riverso in un lago di sangue e membra. La compagna urlò di terrore e sgomento, portandosi le mani alla faccia. Lui caricò e fece fuoco una seconda volta, mettendo a tacere per sempre anche la seconda femmina del gruppo. L’uomo, ripreso dallo shock iniziale, lasciò andare il ragazzo e si lanciò alla carica brandendo il lungo pugnale che portava alla cintola. Fece appena in tempo a urlare “Figlio di” prima di essere scaraventato all’indietro dal terzo proiettile sputato dalla canna ancora fumante del fucile.
Aveva appena sparato l’ultimo colpo, quando saltò fuori dal suo nascondiglio per inseguire il ragazzo, che si era precipitato in una fuga disperata nel bosco. Non se lo sarebbe lasciato scappare per nessun motivo al mondo. Presto, però, dovette abbandonare i suoi propositi: la sua preda era agile e veloce, mentre lui era appesantito dalla borsa che portava a tracolla sulla schiena e dall’età. Si fermò, caricò il fucile ed esplose un colpo di intimidazione, che si frantumò sul tronco di una betulla morta.
Il ragazzo sentì il proiettile sibilare vicino al suo orecchio sinistro e le schegge che lo colpirono sul volto, ma non arrestò la sua corsa. Scartò sulla destra e continuò la fuga giù per il pendio.
Questa volta lui puntò il fucile per uccidere, ma il bersaglio non era pulito: troppi alberi si frapponevano tra lui e il suo obiettivo.
«Fanculo, son troppo vecchio per questa merda. Quello stronzo non poteva legarlo?» Mormorò ansimando tra un lamento e l’altro. In cuor suo sperò che il fuggitivo fosse un moccioso umano, per dare un senso al suo fallimento e rincuorarsi al pensiero che se così fosse stato, comunque non lo avrebbe potuto mangiare.
Tornò sui suoi passi per recuperare il bottino, raggiungendo il casolare dove aveva compiuto la strage: se non altro avrebbe trovato qualcosa di utile. Se poi i cadaveri fossero stati di mutanti, beh, in quel caso la giornata sarebbe stata molto proficua.
Il pugnale dell’uomo che aveva ucciso giaceva poco distante dal suo proprietario, ma era tenuto in pessime condizioni e non valeva il tempo di chinarsi a raccoglierlo. Lo lasciò lì dov’era. Si accucciò sul cadavere ossuto e mingherlino, il petto sfondato dal suo colpo a distanza ravvicinata. Gli stracci laceri e sporchi che indossava rivelavano che non possedeva nulla di valore, non fu quindi una sorpresa trovare le tasche vuote. L’uomo era brutto, molto brutto: rinsecchito, col volto scavato e la bocca marcia. Ma questo non faceva di lui un mutante. Forse un infiltrato?
Si inumidì le labbra con la lingua, accarezzando la punta dei lunghi baffi disordinati e incolti. Non ne aveva mai visto uno, ma aveva sentito dire che fossero molto succulenti e che si nascondessero nel corpo degli uomini rapiti, come gli alieni della serie televisiva “V”. Non era però chiaro se celassero la loro natura sotto la pelle umana o nei teschi. Alcuni sostenevano che fossero così piccoli da entrare dalle orecchie delle vittime per prendere il controllo dei loro corpi dopo avergli divorato il cervello. A lui sembravano solo un mucchio di stupidaggini, ma da quando il mondo era andato a scatafascio, ne aveva viste di cose assurde.
C’era un solo modo per scoprirlo. Il corpo era tanto esile da permettere alla pelle di aderire quasi direttamente alle ossa. Era improbabile che vi si nascondesse qualcuno al di sotto, quindi appoggiò il fucile a terra ed estrasse il martello che portava alla cintola, vicino al lungo pugnale. Spaccò il cranio del cadavere con un paio di colpi ben assestati, poi fece forza per aprire la scatola cranica.
«Niente… Sarebbe stato troppo bello per essere vero.» Bofonchió tra sé e sé, guardando il contenuto del teschio. Sbuffò. Non c’erano dubbi sul fatto che fosse umano.
Abbandonò il corpo e si avvicinò al casolare, per ispezionare le due donne.
Come l’uomo esaminato in precedenza, erano scheletriche e malmesse. Non erano mutanti e nemmeno infiltrati: era stato un clamoroso buco nell’acqua.
Anche loro portavano dei coltelli alla cintura e nessun altro oggetto che catturasse il suo interesse, così passò oltre, allungando la gamba oltre la carcassa che giaceva di traverso sull’uscio malandato. Non gli restava altro che sperare di trovare qualcosa, qualunque cosa, in quella catapecchia. Cominciava a temere il peggio: tempo, pallottole e fatica sprecati. A quel punto il ragazzo doveva essere il mutante. La sua cattura lo avrebbe ripagato di tutto, ma se l’era fatto sfuggire e il suo premio era svanito con lui.
Perlustrò il rudere minuziosamente, da cima a fondo. Non ci mise molto, non c’era granché da setacciare. Il rudere era scarsamente arredato: un paio di giacigli di foglie e stracci, un armadio col fondo sfondato e molta spazzatura. Il grosso era stato bruciato nel diroccato camino che giaceva nell’angolo.
Si passò la mano libera sul volto stanco e tirato, accarezzando la stopposa barba grigia che gli scivolata sul petto, sopra la maschera antigas che portava al collo. Era nella merda. Non era messo tanto meglio dei disgraziati a cui aveva appena regalato un biglietto di sola andata per l’inferno, che a confronto con quello schifo doveva sembrare un paradiso. Erano sopravvissuti di stenti e sofferenze, come la maggior parte delle persone che si aggrappavano ancora alla vita rifiutando l’evidenza della fine.
Lui era esattamente come loro, solo meglio equipaggiato: la fame era la stessa, così come i patimenti.
Per come la vedeva lui, riempirli di piombo era stato un puro atto di misericordia. O almeno così gli piaceva pensare. Da lì a considerare la possibilità di raggiungerli nell’aldilà, il passo era breve. Osservò il fucile, seriamente intenzionato a farsi saltare il cervello, ma come tutte le altre volte tornò sui suoi passi. Voleva farla finita, ma non ne aveva la forza. Era l’istinto di sopravvivenza o la paura a spingerlo ad andare avanti? Non lo sapeva, ma la sua riluttanza a mettere la parola fine alla sua miserabile esistenza lo frustrava. La disperazione era l’unica cosa che gli era rimasta: lo seguiva come un lupo famelico e lo divorava nei momenti di sconforto.
Da quanto tempo non mangiava qualcosa di sostanzioso? Cavallette e scarafaggi erano nutrienti, ma non se ne trovavano più così spesso, soprattutto in quella stagione.
Non gli restava che tentare la fortuna in città, lì avrebbe avuto più possibilità di trovare qualcosa, anche se probabilmente si trattava della morte.
Guardò i due cadaveri all’ingresso e un pensiero raccapricciante gli attraversò la mente. Lo scacciò dalla testa con un moto di stizza: nonostante la disperazione non si sarebbe mai abbassato a tanto. Il cannibalismo non era un’opzione accettabile. Aveva ancora un briciolo di moralità e non aveva intenzione di perderlo.
Lasciò vagare lo sguardo oltre la finestra, prima sul bosco spoglio, poi sul cielo plumbeo.
«Cristo!» sbottò in preda alla rabbia. Afferrò l’armadio sbilenco e lo spinse a terra. Il mobile marcescente si frantumò con un terribile scricchiolio in una pioggia di schegge.
Strinse il fucile nella mano destra e si incamminò tra gli alberi. Tornò dove aveva interrotto l’inseguimento del ragazzo, deciso a seguirne le tracce. Non avrebbe affrontato i pericoli della città, se poteva evitarlo. Si trattava di un azzardo, un ultimo disperato tentativo.
Sapeva che avrebbe dovuto vagare per un po’, il ragazzo era svelto e agile, ma le tracce erano ancora chiare e fresche.
Continuò l’inseguimento fino a quando la fioca luce del giorno glielo permise, poi trovò un angolo per la notte e si fermò a riposare. Non accese il fuoco, non voleva attirare attenzioni indesiderate. Si strinse nel cappotto e si coprì con una vecchia coperta che estrasse dalla sua borsa da viaggio, come un prestigiatore con il coniglio dal cilindro.
Fece fatica a prendere sonno. Era stanco, ma i morsi della fame lo tormentavano, costringendolo a restare sveglio. Lottò contro di loro, ed ebbe la meglio, piombando in un nero abisso privo di sogni.
Si svegliò alle prime luci del giorno. Si alzò indolenzito e svuotò la vescica. Strofinò le mani sui pantaloni sporchi e consumati, mentre si rimetteva in marcia. La caccia era ripresa.
Era tardo mattino, quando gli sembrò di udire dei flebili lamenti provenire dai dintorni. Tese le orecchie, per identificare la direzione da seguire, ma sentiva solo la monotona sinfonia di morte orchestrata dalla gelida brezza, che scuoteva delicatamente le fronde degli alberi spogli. Un pallido sole faceva capolino da dietro i rami secchi, proiettando ombre sottili e scheletriche nel sottobosco disabitato.
Seguì le poche tracce ancora visibili, ma dopo pochi passi il lamento stuzzicò nuovamente il suo padiglione auricolare.
Rimase fermo in attesa, circondato da tronchi immobili e malconci quanto lui.
Un altro lamento, poi solo il fruscio del vento.
L’ultimo gemito gli diede la certezza che cercava e si incamminò verso la fonte di dolore.
Non ci mise troppo a raggiungere la sua preda: il ragazzo giaceva a terra tenendosi la gamba sinistra. Una vecchia tagliola lo aveva ghermito durante la fuga, bloccandolo in quell’angolo dimenticato da Dio.
Denti di ferro arrugginito martoriavano la sua caviglia, affondando nella carne e nei pantaloni laceri. Il sangue scuro colava dalle ferite, imbrattando gli abiti e il suolo umido. Ma lui non ci badò, la sua attenzione era tutta rivolta alla faccia.
«Cristo Santo, sei uno di loro, non è così?» Mormorò stupefatto. La pelle sul suo volto era scivolata di traverso, rivelando al disotto una pelle verdastra a scaglie. Quel viso grottesco gli ricordò Leatherface, il mostro del film “Non aprite quella porta”, che era uscito al cinema qualche anno prima. Probabilmente gli strattoni dell’uomo che lo aveva catturato avevano compromesso la sua copertura.
Appoggiò il fucile contro l’albero che aveva sulla sua sinistra, poi estrasse il coltello e si avvicinò alla sua preda. Un sorriso cauto ma soddisfatto comparve sul suo viso stanco. I suoi occhi scuri brillavano di una nuova luce: era sbocciata la gioia, scaturita dall’appagamento della fame che gli cresceva dentro.
La creatura si dibatteva a terra disperatamente, cercando inutilmente di allontanarsi. La catena alla quale era assicurata la tagliola tintinnava una marcia funebre.
«Ti prego no!» Sibilò l’infiltrato: una supplica che appariva terribilmente umana.
«Hai un dispositivo che simula la nostra voce?» Gli chiese sorpreso, fermandosi a un paio di passi di distanza dalla creatura.
«Sì…Fa anche da traduttore simultaneo.»
«Funzionerebbe anche all’inverso?»
«Sì…»
«Interessante, lo voglio!» Disse torreggiando sul prigioniero. Aveva fame e non vedeva l’ora di assaggiare la sua carne aliena, ma queste informazioni valevano qualche istante di sofferenza in più: avrebbero potuto agevolarlo in futuro, consentendogli di avvicinarsi ad altri infiltrati e coglierli di sorpresa.
«Sarà tuo, se mi lasci andare.» Propose con timore il finto ragazzo.
«E’ già mio. Come funziona?» Si fece avanti di un passo, un riflesso balenò dalla lama del pugnale che stringeva nella mano destra.
«Te lo dirò solo se mi lasci andare.» Supplicò l’altro. Si stava giocando l’ultima mano, ma temeva non fosse vincente.
«Mi dispiace, Cosa, ma non sei nella posizione di trattare. Puoi dirmelo con le buone, e allora le tue sofferenze cesserebbero subito. O puoi dirmelo con le cattive, in questo caso, beh, la morte diverrebbe un sollievo per te. Una cosa è certa, non uscirai vivo da questa situazione.» Guardò dritto negli occhi la creatura che aveva davanti e quella deglutì. Si poteva leggere il terrore nella sua espressione atterrita.
Seguì un momento di silenzio, poi, spazientito, si alzò e fece l’ultimo passo, premendo con il tacco dello scarpone sulla tagliola.
«Allora?» Sbraitò, sputacchiando saliva sulla barba, mentre un urlo grottesco risalì per la gola del prigioniero perdendosi nel bosco.
«Va bene, va bene…» Ansimò «il dispositivo è assicurato alla mia nuca, funziona attraverso un collegamento neurale…»
Ancora prima che quello potesse finire di spiegare, lui afferrò i capelli ricci e scuri e strappò la maschera umana dalla testa della creatura, rivelando il suo vero volto: il muso squamoso di un rettile. Guardò il cappuccio afflosciato e lo lanciò a terra disgustato. Fece per mettere la mano sinistra sulla nuca dell’alieno, ma questo, con un riflesso fulmineo, gli afferrò il braccio armato con la mano guantata di pelle umana e lo tirò giù.
Lottarono a terra, la catena tintinnava all’impazzata.
La creatura era più piccola di lui, ma era forte e lo sovrastava. Lui gli immobilizzò le mani e cercò di divincolarsi, ma non riusciva a toglierselo di dosso. L’altro aprì la bocca, era piena di denti affilati, ma le zanne che lo preoccupavano di più erano quelle frontali: acuminate e letali come quelle di un cobra. Tese i muscoli, si diede una spinta col dorso e colpì con una testata il rettile. La creatura lasciò la presa, lui rotolò sul fianco e strisciò via, mentre si allontanava, però, il prigioniero fece un scatto col torace e lo morse con forza sulla chiappa sinistra.
Lui urlò, tirò un calcio e si allontanò, raggiungendo il fucile. L’alieno era rimasto accucciato a terra, assicurato a debita distanza dalla catena della tagliola. Soffriva, era evidente, ma presto avrebbe messo fine alla sua esistenza.
Si mise in piedi, puntando il fucile sul prigioniero. Sentiva la zona in cui era stato morso intorpidirsi rapidamente.
«Che cazzo mi hai fatto?» Domandò rabbiosamente.
«Ti ho avvelenato. Come dite voi umani? Ah sì, sei fottuto amico.»
«Vaffanculo!» Urlò, zoppicando un passo in avanti pronto a fare fuoco sull’infiltrato.
«Non lo farei se fossi in te, sono l’unico che può salvarti ora. Aiutami a liberarmi e neutralizzerò il mio veleno.»
«Col cazzo! Stai bluffando!»
«No, davvero. Sai, non hai molto tempo. Agisce molto rapidamente.»
«Come posso fidarmi di te?» Chiese urlando, il panico era percepibile io ogni singola sillaba.
«Non puoi umano, ma che scelta hai? Pensaci bene, ti sto offrendo la vita in cambio della mia libertà.»
«Cazzo!» Urlò. La disperazione aveva preso il controllo del suo corpo, annebbiando la sua mente e scacciando ogni forma di raziocinio.
Sentiva il formicolio risalire sulla schiena e scendere lungo la gamba, in breve tempo la paralisi avrebbe coinvolto tutto il lato sinistro, espandendosi su quello destro. Era fottuto.
Non si fidava di quella creatura, ma cos’altro poteva fare? Nulla. Guardò il fucile, le dita che lo stringevano diventavano molli e le braccia sempre più pesanti. Non gli restava molto tempo. Guardò l’alieno che aveva davanti, aveva raccolto il suo pugnale e lo stava usando per forzare l’apertura della tagliola. Il tintinnio e i suoi gemiti grotteschi gli riempivano la testa. Sentiva pulsare le tempie, il germe della follia germogliava.
«Mi fido o non mi fido? Cosa posso fare? Se lo libero mi lascerà morire e magari indosserà il mio corpo…No, no, no, non posso fidarmi! Non posso! Sono già morto…e lui con me. Non resta altro da fare.» Blaterava, senza rendersene conto e con occhi spiritati. «Non resta altro da fare!» Urlò, scagliando saliva e rantoli.
Il bosco vorticò intorno a lui. Senza rendersene conto era in ginocchio: le gambe talmente intorpidite che non aveva nemmeno sentito il contatto col suolo, quando cadde. Strisciò verso il rettile, facendo forza sulle braccia sempre più deboli. Il fucile sempre serrato nelle sue mani. Era spacciato.
Inconsapevolmente infilò la canna dell’arma da fuoco tra i denti della tagliola e fece leva con il peso del corpo per spalancare le fauci di metallo insanguinate. Voleva vivere, a tutti i costi.
«Ecco, così.» Sibilò l’alieno, forzando la ferrea morsa con la lama del pugnale. Appena fu aperta, fece scivolare fuori la gamba e strisciò via.
«A-aiutami ora.» Bofonchiò.
«Non ti preoccupare, ci penso io!» Rispose l’alieno e a lui sembrò di vedere un ghigno prendere forma sul mostruoso volto «sarai un ottimo travestimento, amico mio.»
Non sentì dolore, quando la creatura cominciò a lavorare il suo corpo per fabbricarsi il nuovo abito da indossare, ma era perfettamente consapevole di ciò che stava succedendo e non poteva fare altro che assistere inerme alla sua inevitabile fine.