Il cielo grigio emanava bagliori violenti, che s’infrangevano sull’equipaggiamento dei guerrieri in attesa. I riflessi danzavano scatenati rincorrendosi sui grandi scudi, sugli elmi e sulle punte di lancia. L’aria era pesante e la tensione palpabile. Il nemico era alle porte. I soldati rimasti all’interno delle mura bramavano la guerra e la gloria e le urla dei compagni già impegnati sul campo di battaglia non facevano altro che aumentare il loro desiderio di sangue e distruzione.
Si levò una flebile brezza, un sussurro d’oltretomba. Alcuni mantelli scarlatti si mossero appena, come accarezzati da una divinità: che fosse il dio della guerra a benedirli o la dea della morte a maledirli solo il tempo lo avrebbe rivelato. Le lance cominciarono a sferzare le mattonelle della piazza cittadina, scandendo il ritmo di guerra. Non un fiato, solo legno robusto contro la pietra. Il momento era vicino, tutti lo percepirono.
Era in prima linea, con il cuore in tumulto e l’anima in trepidazione.
“Non capisco perché tocca a me aprire le danze” sbuffò Ghiotto in piedi sulla sua destra. Aveva una carnagione chiara e un viso dai lineamenti regolari. La smorfia di disappunto era coperta da baffi disordinati, che con un folto pizzetto vestivano il suo volto pallido. I lunghi capelli corvini fuggivano da sotto l’elmo in un una coda selvaggia e indomabile.
“Avrai l’onore del primo sangue” Gli rispose lui con un ghigno beffardo. I suoi occhi verde-castano furono attraversati da un lampo di esaltazione. Ghiotto sbuffò, e non aggiunse altro. Toros, che copriva il fianco sinistro, si limitò a sospirare. Era un uomo di poche parole, ma si conoscevano fin da quando erano dei mocciosi che puzzavano ancora di latte, non c’era bisogno che dicesse nulla. Anche lui, come Ghiotto, aveva una carnagione molto chiara. Il viso aveva tratti duri ed era incorniciato da barba e capelli rossi come le braci ardenti. Gli occhi erano azzurri come il ghiaccio perenne dell’estremo nord e altrettanto freddi. Nessuno di loro parlò più, per tutti e tre era il battesimo del fuoco.
Quando finalmente la porta laterale delle mura si spalancò il fiume di morte straripò all’esterno, con un boato di mille voci. Le sue urla si smarrirono con quelle degli altri in un coro di rabbia e ferocia.
Caricarono il nemico sul fianco destro, in un fragore di metallo, grida e sangue. La gloria era a portata di lancia e non se la sarebbero lasciata scappare.
Perse di vista i compagni nella bolgia infernale, ma non aveva importanza: li avrebbe ritrovati in questo mondo o in quell’altro.
Davanti ai suoi occhi ora c’erano solo vite da spezzare e anime da rubare.
Dalla polvere emerse un’ombra: un uomo enorme, pelato e con le guance paffute. Gli occhi colmi di odio e rabbia facevano a pugni con il volto tenero e delicato che aveva ereditato dai genitori e dai piatti abbondanti. Quella vista gli strappò un sorriso. Senza timore si lanciò contro quella figura contraddittoria scagliandogli contro la sua lancia. La saetta si librò in volo infrangendosi sullo scudo di bronzo dell’avversario, che ne deviò la traiettoria. L’asta si piantò nel terreno. L’avversario rispose con un urlo selvaggio, poi caricò brandendo la spada. Si avventò su di lui come un toro furioso che vede rosso. Lui scartò sulla sinistra, evitando l’energumeno, poi fendette l’aria con la sua lama, cercando la carne del nemico. Trovò il metallo dello scudo. Ancora. Il bastardo era grosso, ma per niente lento. Non sembrava nemmeno stanco, nonostante fosse sul campo di battaglia da molto più tempo di lui.
La polvere sollevata da terra s’incollava al corpo, trattenuto dal sudore che grondava sui loro corpi. I mantelli più o meno laceri svolazzavano a ogni movimento, schioccando nell’aria come bandiere in balia del vento.
Il cielo tuonò una volta. Poi si fece sentire altre due, tre volte. Il campo di battaglia non si ammutolì, continuò a urlare di furore e agonia.
Cercò di prendere il sopravvento sull’energumeno con un paio di attacchi veloci, ma la sua spada perse schegge e scintille sul bronzo sfregiato dello scudo. Cominciò ad ansimare, evitò un attacco, poi il secondo. Al terzo l’energumeno gli strappò la spada e col quarto gli portò via lo scudo. Il piede enorme si abbatté sul suo torace come l’ariete da guerra sulle porte delle mura. Volò a terra e nella caduta perse il fiato. Quando riaprì gli occhi l’avversario era già su di lui, pronto a trapassargli il cuore con rabbia. La paura lo rapì e lo portò via, mettendogli le ali ai piedi. Rotolò sul fianco e cominciò a correre, senza mai voltarsi indietro. Gli insulti e le ingiurie lo raggiunsero alle spalle, ma la codardia ora non era un problema per lui in quel momento. Qualcuno lo placcò sulla sinistra, scaraventandolo a terra, tra la polvere, arti recisi e cadaveri abbandonati. Urlò, un po’ per paura, un po’ per coraggio. Non si sottrasse alla scazzottata col nuovo nemico senza nome. Era più piccolo di lui e più stanco: nello scontro fisico ebbe la meglio. Gli frantumò il cranio con un elmo rubato a un morto lì vicino.
L’energumeno lo raggiunse e in un attimo fugace fu nuovamente su di lui. Emise un terrificante grido di morte e lui fu nuovamente preda del terrore. Lanciò un ultimo sguardo verso casa, verso la sommità delle mura. Non c’era più salvezza per lui. Qualcosa sul campo di battaglia catturò la sua attenzione, tra la polvere e i guerrieri che combattevano scorse una tavola imbandita e diversi commensali. Vide con i suoi occhi da morituro suo fratello, arrogante e sprezzante, seduto al desco del banchetto. Uno scorcio dell’aldilà. Il sangue del suo sangue lo indicava con sdegno e commentava il suo duello con disprezzo. Non aveva gradito la sua prestazione e lo stesso valeva per gli avi che condividevano con lui il pasto. Avrebbero presto affrontato la questione, probabilmente seduti alla stessa tavola.